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giovedì 31 dicembre 2020

misura bene lo stupore delle differenze

 



CREPA MATTUTINA


Scava la tua miseria,

sondala, scopri le sue caverne più nascoste.

Olia gli ingranaggi della tua miseria,

mettila sul tuo cammino, fatti strada al suo fianco

e bussa a ogni porta

con le cartilagini bianche della tua miseria.

Confrontala con quella di altre genti

e misura bene lo stupore delle differenze,

la singolare acutezza dei suoi bordi.

Riparati negli angoli lievi della tua miseria.

Tieni presente in ogni istante

che la sua materia è la tua materia,

l’unico porto di cui conosci ogni rada,

ogni boa, ogni segnale dalla terra tiepida

dove giungi a regnare come Crusoe

tra la moltitudine di ombre

che ti sfiorano e che urti

senza cogliere né il suo proposito né i costumi.

Coltiva la tua miseria,

rendila duratura,

nutriti della sua linfa,

avvolgiti nel manto tessuto coi suoi fili più segreti.

Impara a riconoscerla fra tutte,

non permettere che sia familiare agli altri

né prolungata abusivamente dai tuoi.

Sia per te come acqua battesimale

sgorgata dalle grandi fogne municipali,

come i rivoli che nascono nei mattatoi.

Si confonda con le tue viscere, la tua miseria;

contenga fin da ora i capitoli della tua morte,

gli elementi del tuo abbandono più certo.

Non lasciare mai da parte la tua miseria,

anche se riposassi ai suoi argini

come vicino al corpo bianco

da cui si è ritirato il desiderio.

Tieni sempre pronta la tua miseria

e non permettere che evada per distrazione o per inganno.

Impara a riconoscerla fin nei suoi segni più lievi:

l’accartocciarsi delle sottili foglie del carbonero,

l’aprirsi dei fiori al primo fresco della sera,

la solitudine di una gabbia da circo bloccata nel fango

del cammino, la fuliggine nei sobborghi,

la gavetta d’ottone che misura la minestra nelle caserme,

i vestiti disordinati dei ciechi,

le campanelle che disperdono il richiamo

sul retro seminato di eucalipti,

lo iodio delle navigazioni.

Non mescolare la tua miseria con le questioni di ogni giorno.

Impara a conservarla per le tue ore di svago

e intreccia con lei la vera,

la sola materia duratura

del tuo episodio sulla terra.


         di Álvaro Mutis da “SUMMA DI MAQROLL IL GABBIERE”


Ci accingiamo in queste ore a salutare questo anno così difficile e mentre riguardavo le pagine del mio diario di bordo mi è venuto in mente Maqroll il gabbiere, un tipo che dovete assolutamente conoscere, sebbene i posti che ama frequentare non siano proprio raccomandabili. 

Nelle navi a vela di un tempo il gabbiere era il marinaio che si arrampicava sugli alberi e sui pennoni più alti per manovrare le vele o stare di vedetta. Ora le cose sono un po' cambiate ma lui spesso è solo lassù, vede prima degli altri l'ombra della terra a lungo attesa, l'arrivo di un fortunale che oscura il cielo, il soffio di una balena che si alza a tribordo. Il poeta colombiano Álvaro Mutis ha fatto del marinaio Maqroll, un gabbiere appunto, il protagonista dei suoi romanzi, la voce principale della sua poesia.

Mentre veglia sull'albero più alto, Maqroll percorre con lo sguardo "profumi, case abbandonate", vede alzarsi il fumo degli alambicchi, ode il canto delle Terre Alte. Il gabbiere scorge e grida allegrie e miserie, la stoltezza degli uomini, la danza dell'allegria. Contempla insieme la vita sofferta a sorsi e il filo di una spada rosa dalla ruggine. Guardando le cose da lassù ha imparato che la vita è la presa di coscienza della sconfitta, ma la sua via non è quella della resa, ma quella gioiosa della disperanza, in cui ha ancora senso la parola del poeta:

Lo stesso Maqroll ci avverte al riguardo in un'altra poesia dal titolo "I lavori perduti" : 

A nulla serve che il poeta lo dica ... la poesia è fatta da sempre. Vento solitario. Artiglio disseccato e friabile di un uccello potente e tranquillo, vecchio d'età  e valoroso nel suo ultimo istante.  



giovedì 24 dicembre 2020

le stelle accorrono

 

Giotto, la Natività (fonte Wikipedia)


LA LUCE CHE VIENE


Perfino così tardi avviene:

l’amore che arriva, la luce che viene.

Ti svegli e le candele si sono accese forse da sé,

le stelle accorrono, i sogni entrano a fiotti nel cuscino,

sprigionano caldi bouquet l’aria.

Perfino così tardi gli ossi del corpo splendono

e la polvere del domani s’incendia in respiro.


      di Mark Strand,  traduzione di Damiano Abeni



Natale 2020 -  Voglio fare gli auguri a tutti i lettori e i viaggiatori che incrociano quando possono le poesie di questo blog. Auguri con una poesia ovviamente, di pochi versi, ma preziosissimi per la loro capacità di illuminare  - al modo di una stella tenue -  una parte di quel mistero che oggi ci va interrogando. L'oscurità non ha l'ultima parola sui destini dell'uomo, la luce viene, persino quando ormai si è smesso di attenderla, persino così tardi, in modi del tutto inconsueti, come delle candele che danno luce senza che alcuno le abbia accese. Come la fanciulla di Nazareth che mescola insieme in questa notte le grida del parto e le preghiere che porta nel cuore.

E tutto, persino delle vecchie ossa, si riveste di splendore e fiamma.





mercoledì 16 dicembre 2020

unica voce il cui respiro sento

 




La notte è mia sorella, io nel profondo

dell’amore annegata, giaccio a riva,

acque ed alghe a fior d’onda mi lambiscono,

mi ferirà la draga, e c’è di più:

lei, solo braccio teso dalla sabbia,

unica voce il cui respiro sento

a sgelarmi le nari, ad aprirmi la mano,

lei potrebbe avvisarti, se tu udissi.

Ma di certo è impensabile che un uomo

in sí dura tempesta lasci il quieto

focolare e s’imbarchi al salvataggio

di un’annegata per portarla a casa,

sgocciolante conchiglie sul tappeto.

Buia è la notte, e per me piange al vento.

        

di Edna St. Vincent Millay,  L’amore non è cieco (Crocetti, 2001), traduzione di  Silvio Raffo


e questa è la versione originale:

Night is my sister, and how deep in love,

How drowned in love and weedily washed ashore,

There to be fretted by the drag and shove

At the tide's edge, I lie—these things and more:

Whose arm alone between me and the sand,

Whose voice alone, whose pitiful breath brought near,

Could thaw these nostrils and unlock this hand,

She could advise you, should you care to hear.

Small chance, however, in a storm so black,

A man will leave his friendly fire and snug

For a drowned woman's sake, and bring her back

To drip and scatter shells upon the rug.

No one but Night, with tears on her dark face,

Watches beside me in this windy place.


E' notte. Parla una donna, una donna annegata, cose che accadono nelle poesie. La corrente l'ha deposta sulla riva, il corpo lambito di acque e alghe, destinato ad un ultimo oltraggio: lo scempio che le prepara il braccio meccanico di una draga. Eppure a questo stesso braccio, al motore che lo solleva - unica voce il cui respiro sento -, la donna annegata affida uno scarto di speranza. Sarà lei, forse, la scavatrice a farsi messaggera per l'amato, a dirgli del suo pericolo.

Soli, sulla spiaggia, nella notte buia rimangono la donna annegata e la macchina d'acciaio. L'uomo non giungerà a soccorrerla, non certo in una notte di tempesta come questa. Non la porterà a casa sua in questo stato, a sgocciolare conchiglie sul tappeto.

Per lei sola intanto piange il vento.

Quale straordinaria forza evocativa in queste immagini: una notte di bufera, una donna annegata, sola su una spiaggia, la sua sola compagnia una gru di acciaio, immagino arrugginita dalla salsedine e questo struggente ultimo pensiero che scivola tra i denti con il suo ultimo respiro ... se tu udissi

Se volete leggere le poesie di Edna St. Vincent Millay e vi dico che ne vale la pena, le trovate pubblicate in italiano da Crocetti, uno degli editori  più interessanti e coraggiosi del nostro panorama culturale. Sono andato a leggermi sul sito della casa editrice il ritratto di Edna: scopro così che è stata l’eroina dell’età del jazz, la poetessa più amata e più letta nell’America degli anni venti. Il suo sex appeal - dicevano - aveva l’effetto di una droga sulle persone. Thomas Hardy disse che c’erano soltanto due grandi cose negli Stati Uniti: i grattacieli e la poesia di Edna. Insomma davvero una che valeva la pena conoscere, "Interpretò una femminilità libera e spregiudicata - aggiunge il suo profilo - e raccontò l’amore romantico ma senza illusioni, la precarietà della vita e la tristezza senza rassegnazione. Le poesie di Edna conservano una forza che il tempo non ha scalfito. 

Incuriosito ed affascinato sono andato a cercare qualche notizia in più sulla poetica di Edna; il suo traduttore Silvio Raffo, in una intervista a Pangea News, (potete leggerla integralmente qui la-bad-girl-della-poesia-americana/)  ci spiega che "le tematiche ricorrenti nella poesia di Edna St. Vincent Millay sono quelle della grande tradizione shakespeariana: la caducità del tempo, l’eternità della Bellezza, la fragilità della condizione umana. Un certo cinismo incrina il romanticismo di base, come accade anche nella poetessa a lei maggiormente affine, Sara Teasdale. Una voce femminile disincantata. Insomma, una bad girl che conquistò i giovani del Greenwich Village proprio in virtù della sua spregiudicatezza. I suoi testi parlano spesso d’amore, in toni che talvolta parrebbero intrisi di romanticismo, ma il fatto è che il suo “romanticismo” è un’erma bifronte, una sorta di amabile bluff. In Spring, una poesia in cui si ricollega all’Eliot di “Aprile è il mese più crudele”, lo dice chiaramente: “I know what I know” e questo potrebbe, a ben vedere, essere il suo motto. "

lunedì 7 dicembre 2020

inchiostri leggeri di piume sottili

 


DELICATA FESSURA


Ti rovescio parole di carta,

cascate di lettere che esondano a terra.


Puoi farne origami di storie,

teatrini di ombre o alfabeti sonori,

puoi farne collage di momenti,

ritagli di pelle, timbri di baci.


Non sono pesanti le mie parole

ma inchiostri leggeri di piume sottili.


Scroscia la schiuma se bagna la sabbia

talmente potente che non fa rumore,

sussurro con voce pacata

allo spiraglio della tua mente.


In te, delicata fessura,

riverso parole tra i tagli imperfetti.


Puoi farne ciò che desideri

soltanto ti chiedo, abbine cura.

Preservale intatte a scaldare il tuo petto

Richiudi quel varco,


poi getta la chiave.


         di Francesca Pardini



Così da Parigi scriveva Rainer Maria Rilke ad un giovane poeta che gli chiedeva un giudizio sulle sue poesie: "Guardi dentro di sé. Si interroghi sul motivo che le intima di scrivere; verifichi se esso protenda le radici nel punto più profondo del suo cuore; confessi a se stesso: morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità."

Nel viaggio verso una stella tenue  mi capita di incontrare molte persone  diverse. Alcune hanno una mappa che conduce alla dimore di una poetessa che non conoscevo, altre mi mostrano una lente con la quale osservo nuove realtà in versi su cui a lungo avevo meditato invano. A volte ho percepito un grido,  di aiuto o più semplicemente la richiesta di fare un tratto di strada insieme. Vi sono infine coloro che danno voce ad un'urgenza  necessaria, ad un appello ineludibile: sono poeti giovani o che non hanno trovato ancora il loro spazio nel mondo dell'editoria. Ho deciso quindi di creare un angulus in questo blog dedicato a tutti loro, a tutti coloro che scrivono nell'ora più quieta della loro notte.


Francesca mi ha raccontato questo di sé e della sua poesia: "Da bambina disegnavo sui tovaglioli di carta quando non avevo a portata di mano carta e penna. Da ragazza ho testato i pennelli e l’odore dell’olio e dell’acqua ragia li ho ancora impressi nel repertorio dei ricordi evergreen. Ho sempre rincorso le immagini, le ho studiate, le ho ammirate, le ho spiegate agli altri. Opere d’arte, rappresentazioni, qualsiasi materiale creato che possa essere sottoposto alla nostra percezione. L’estetica è realmente tutto ciò che riguarda la percezione dei nostri sensi e sono tutte incredibilmente concatenate in una macchina complessa, che vuole solo essere guidata nel modo giusto. Cosa mi spinge a scrivere? La necessità di riportare con le parole un’esperienza o il frammento di un’idea che posso avere realmente vissuto o che mi è stata suggerita da ciò che osservo, da ciò che mi circonda. Questo  momento mi si presenta attraverso immagini, e queste corrispondono ad  un mondo infinito di parole. Abbiamo una lingua talmente ricca di sfumature che poterle usare non è così diverso dall’avere in mano una tavolozza di colori e poter scegliere quelli giusti, di fronte a una tela bianca. Anche se la scelta fosse quella di non usare alcun colore. La scrittura è  un  gioco incredibile di variabili, e la   poesia  ne è l’essenza. Ho un approccio naturale alla sintesi, ma lascio anche scorrere la penna a lungo quando serve. D’altronde nell’arte c’è stato bisogno di un Lucio Fontana ma anche delle follie di Jackson Pollock. Voglio pensare che nella poesia, nella mia poesia, possa essere lo stesso."

Il passo di Rilke che ho citato è tratto da una delle lettere pubblicate di recente in Italiano da Adelphi, in "Lettere ad un giovane poeta": "Le Lettere a un giovane poeta furono realmente indirizzate da Rilke al giovane scrittore Kappus fra il 1903 e il 1908. Pubblicate postume nel 1929, si diffusero in breve tempo nei paesi di lingua tedesca come una specie di breviario – non tanto d’arte quanto di vita. Oggi, nella generale riscoperta di Rilke, ormai sfrondato di quegli omaggi sensibilistici che per molti avevano a lungo impedito l’accesso alla sua grande poesia, queste pagine tornano a essere una guida preziosa. Fin dalle prime righe, esse ci danno l’accordo che poi sentiremo risuonare in ogni parola di Rilke: «La maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura». Scrivere, per Rilke, era al tempo stesso un atto che poneva esigenze assolute, mutando la vita intera, e un oscuro processo biologico, una fermentazione delicata dove alla coscienza spettava soprattutto di stare in ascolto, esercitando un’ardua «passività attiva». E proprio in queste lettere Rilke ha saputo illustrare la sua «via» alla letteratura con le parole più precise e più dense. Unite a due altri brevi testi di carattere affine (le Lettere a una giovane signora e Su Dio), le Lettere a un giovane poeta vengono qui proposte nella celebrata versione di Leone Traverso, che fu uno dei primi e più felici interpreti di Rilke in Italia" (dalla prefazione Adelphi)

martedì 1 dicembre 2020

sentirti destino intrecciato

alla mia sposa 


Marc Chagall, Le tre candele 


Alcesti


Ma solo pensare a te.

Non è una figura che viene

una nitida traccia.

È come cadere in un posto

con un po’ di dolore.


Tu sei il mio tu piú esteso

deposto sul fondo mio. Tu. Non c’è

un’altra forma del mondo

che si appoggi al mio cuore

con quel tocco, quell’orma.

Tu. Tu sei del mondo la piú cara

forma, figura, tu sei il mio essere a casa

sei casa, letto dove

questo mio corpo inquieto riposa.

E senza di te io sono lontana

non so dire da cosa ma

lontana, scomoda un poco

perduta, come malata,

un po’ sporco il mondo lontano da te,

piú nemico, che punge, che

graffia, sta fuori misura.


Mio vero tu, mio altro corpo

mio corpo fra tutti mio

piú vicino corpo, mio corpo destino

ch’eri fatto

per l’incastro con questo mio

essere qui in forma di femmina

umana. Mio tu. Antico suono

riverberante, antico

sentirti destino intrecciato

sentire che sei sempre stato,

promesso da ere lontane

da distanze cosí spaventose

cosí avventurose distanze da

lontananze sacre.


Tu sei sacro al mio cuore.

Il mio fuoco

brucia da sempre col tuo

il mio fiato.


Io parlo delle forze −

di correnti sul fondo del mio lago

sul fondo del tuo, oscure e potenti,

piú del tempo dure piú dello

spazio larghe, ma sottili

al nostro sentire,

afferrate appena

e poi perdute, nel loro gioco.


Che cosa siamo io e te? Che cosa eravamo

prima di questo nome? E ancora

saremo qualcosa, lo sappiamo e non

lo sappiamo, con un sentire

che non è intelligente lavorio cerebrale.


Nessuna parte di corpo che muore

nessun pezzo umano, nessun arto,

nessun flusso di sangue, nessun

cuore, nessuno, niente che sia

stretto nel giro del sole, niente

che sia solo terrestre umano muove

il tuo cuore al mio, il mio al tuo,

come fossero due parti di un uno.


Allora tu sei la mia lezione piú grande

l’insegnamento supremo.

Esiste solo l’uno, solo l’uno esiste

l’uno solamente, senza il due.


                                 Mariangela Gualtieri, da “Bestia di gioia”, Einaudi, Torino, 2010

domenica 29 novembre 2020

inaspettato ci raggiunge il timore

 



Γλαῦχ᾽, ὅρα· βαθὺς γὰρ ἤδη κύμασιν ταράσσεται
πόντος, ἀμφὶ δ᾽ ἄκρα Γυρέων ὀρθὸν ἵσταται νέφος,
σῆμα χειμῶνος, κιχάνει δ᾽ ἐξ ἀελπτίης φόβος.

Glauco guarda!  Sconvolto è dalle onde il profondo
mare, sulle vette di Gire in alto si erge un nembo,
segno di tempesta, inaspettato ci raggiunge  il timore.

                       Archiloco (Arch. fr. 105 West), la traduzione è mia


Due uomini guardano il mare turbato da una tempesta improvvisa sul punto di scatenarsi: le onde già  iniziano a sconvolgere gli abissi, i nembi sovrastano le vette delle scogliere di Gire. Ecco che da qualche luogo dell'animo, sorge un timore inatteso. 

I commentatori antichi sostenevano che in questi versi la descrizione della burrasca avesse anche un significato allegorico, forse l'approssimarsi di una battaglia, ma allo stesso tempo deducevano dalla precisione dei dettagli e della rappresentazione dello scatenarsi degli elementi, l'origine dell'ispirazione poetica in una esperienza-limite, autobiografica. Credo anche io che sia così, Archiloco in questo frammento riesce, con straordinaria efficacia, a rendere ciò che lì, su quella scogliera, ha afferrato e stretto a sé tanto il corpo che la mente.

Mi sembra che i versi del poeta di Paro rivelino una dimensione profonda della nostra esistenza; certo, è probabile che quanto ha provato in quel giorno insieme al suo amico Glauco, in qualche momento della nostra vita, noi lo abbiamo provato. Tutto sembra andare per il verso giusto: le amicizie, gli affetti, il lavoro, si studiano le migliori scuole per i propri figli, si fanno progetti  di viaggio, gettando un occhio su una carta geografica o alle previsioni metereologiche. 

Esattamente quello che fa Cicerone durante il suo viaggio in Grecia - è lui  stesso a raccontarlo  all'amico Attico - quando, citando i versi di Archiloco, gli riferisce che non si sarebbe affrettato a lasciare l'isola di Delo finché non avesse visto le alture di Gire sgombre da nubi (itaque erat in animo nihil festinare, nec me Delo movere nisi omnia ἄκρα Γυρέων pura vidissem.).  
 
Poi, all'improvviso, tutto cambia: d'un tratto il mare ruggisce ed infuria ed un nembo oscuro, annunciatore di tempesta, si erge sopra le vette dei monti. Nella nostra vita, come in quella del poeta greco.

Non è un caso che l'ispirazione dei versi di Archiloco prenda vita al cospetto del mare,  sul confine assegnato dalla natura allo spazio delle imprese umane. Non solo il mare si è consolidato nell'immaginario dell'uomo con il carattere dell'imprevedibilità, persino della ricerca filosofica, tanto che il filosofo Leibniz, scrive a proposito: «Credevo di essere arrivato in porto, e sono stato rigettato in mare aperto». Ma c'è di più,  il fine ultimo della vita filosofica è espresso da Lucrezio attraverso l'immagine metaforica di un uomo che dalla terraferma osserva, al sicuro da ogni turbamento, un mare in tempesta ed a una nave in pericolo di naufragare. E' la filosofia che secondo Lucrezio può garantire la giusta “distanza di sicurezza” all'uomo, il quale grazie ad essa diventa come uno spettatore, che sereno, contempli la tempesta, la fatica e il pericolo di chi ci s’imbatte, pericolo al quale il filosofo ritiene di non essere esposto. 

Il fatto è che la vita ci sorprende sempre. Per quante attenzioni rivolgiamo, come Cicerone e Lucrezio, a scorgere i "segni della tempesta" o a scansarne gli effetti,  la condizione umana pare inseparabile da quel momento che Archiloco ha espresso benissimo con l'immagine del timore che lo coglie all'improvviso: ἐξ ἀελπτίης. 

Non posso fare a meno di notare in questa parola la radice di ἐλπίς, speranza, negata dal prefisso privativo, cosicché potremmo dire - in un certo senso - che il timore giunge da dove non c'è speranza. Nel lessico greco l'espressione ἐξ ἀελπτίης indica dunque il luogo dell'inatteso, dell'imprevisto e del non-sperato allo stesso tempo. In questo senso il timore giunge non solo da ciò che non siamo in grado di prevedere, ma anche da una dimensione interiore abitata dal non-sperato.

Ritrovo in questi versi lo spirito dell'Iliade, ciò che mi ha fatto innamorare della poesia greca antica: nulla è nascosto di ciò che accade all'uomo colpito dalla sventura, nessuna facile pietà. Vi regna invece il senso profondo della misura, la consapevolezza del limite entro cui si iscrive ogni orizzonte umano, ma anche l'apertura appena accennata, quasi con riserbo, a ciò che può ancora essere, all'insperato,  al non ancora





giovedì 19 novembre 2020

se c’è un precipizio del paesaggio

 


Ho un fiore in mano forse.

Strano.

Nella mia vita deve esserci

stato un giardino un tempo.


Nell’altra mano stringo

una pietra.

Con fiera grazia.

Nessun sospetto

per preavvisi di mutamenti,

sentore di difese piuttosto.

Nella mia vita deve esserci

stata ignoranza un tempo.


Sorrido.

La curva del sorriso,

il cavo del mio umore

somiglia a un arco ben teso,

pronto.

Nella mia vita deve esserci

stato un bersaglio un tempo.

E predisposizione a vincere.


Lo sguardo affondato

nel peccato originale:

assapora il frutto proibito

dell’attesa.

Nella mia vita deve esserci

stata fede un tempo.


La mia ombra, nient’altro che un gioco del sole.

Addosso un’uniforme d’incertezza.

Non ha ancora fatto in tempo ad essermi

compagna o delatrice.

Nella mia vita deve esserci

stata abbondanza un tempo.


Tu non ci sei.

Ma se c’è un precipizio del paesaggio

se io sto sull’orlo

con un fiore in mano

e sorrido,

vuol dire che da un momento all’altro arriverai.

Nella mia vita deve esserci

stata vita un tempo.


di Kiki Dimoula da L’adolescenza dell’oblio (Crocetti, 2000), trad. it. P. M. Minucci


Nel mio viaggio verso una stella tenue incontro a volte viaggiatori che mi mostrano una direzione sconosciuta. Questa volta devo ringraziare Caterina per avermi indicato la via che porta alla poetessa greca Kiki Dimoula.

Succede a volte che la poesia faccia sorgere in chi l'ascolta echi profondi: un suono o una musica che è difficile dire da dove venga. Arriva ed entra in una inattesa consonanza con grovigli di antiche emozioni, incide cicatrici dimenticate, risveglia e scuote. 

In questa poesia mi sembra, che il tessuto emotivo fondamentale si costruisca attorno ad un "oggi", in cui alcune cose accadono: una mano stringe un fiore, l'altra una pietra, un volto che accenna un sorriso. Ed un "passato" che questi gesti richiamano alla memoria. A questa infine sembra che altro non sia concesso se non fare ipotesi, con una grazia del tutto speciale, su ciò che il tempo ha portato via:

Nella mia vita deve esserci

stata vita un tempo.

Solo l'amore, o l'illusione dell'amore, sembra poter sfuggire al potere dello scorrere della sabbia nella clessidra. Si può sorridere sull'orlo del precipizio, aspettando chi da un momento all'altro arriverà.

martedì 10 novembre 2020

Una voce mi chiama

 



Una voce mi chiama

via da questa vita fugace

come una pioggia 
   
     d'estate


                  Shida Yaba  Terzo giorno del primo mese
                                       del quinto anno Genbun (1740)


Quello che avete appena letto è un tipo di poesia in voga in Giappone da secoli. E' chiamato Jisei, la poesia dell'addio, quella che si compone in prossimità della morte, quando il mondo comincia a declinare attorno a noi e ci apprestiamo ad abbandonare ogni cosa, ogni ricordo. Come in molti altri aspetti della vita i giapponesi sembrano attenersi ad un codice ben codificato, insito profondamente nei loro costumi. Lo ha ben spiegato Mario Vattani nel bel libro di cui è autore, "Svelare il Giappone": vi è come un ritmo giapponese di fare le cose, una forma riconoscibile in gran parte delle azioni che un uomo o una donna compiono abitualmente: accenno, pausa, azione perché "eseguire un'azione in modo sbrigativo, con una sola mossa, è volgare e animalesco". 
E' questa una forma che chi ha praticato una delle tante discipline marziali legate all'arte della spada conosce bene. Ogni allievo lo ha colto, osservando il proprio sensei nell'atto di riporre la spada nel fodero: accenno, pausa, azione.

Così sembra essere anche per questa forma di scrittura, Jisei, la poesia del commiato. Quasi che non vogliano invadere con un'emozione improvvisa la sfera interiore di chi è vicino, i Giapponesi da secoli, al presentimento della morte sono soliti affidare alla poesia il compito di aiutare lo "spirito ad allentare i legami con il mondo delle forme e a rilassare i contorni dell'io, così da renderlo partecipe della natura divina che palpita in ogni creatura". A spiegarci tutto ciò è Ornella Civardi che ha curato la raccolta intitolata "Jisei, poesie dell'addio" per l'elegante casa editrice SE. 

Shida Yaba, l'autore dell'haiku, che avete appena letto era stato discepolo di Matsuo Bashō, probabilmente il massimo maestro di questo genere di poesia - alcuni suoi componimenti potete leggerli anche qui sul blog. Yaba è già piegato dalla malattia quando si fa consegnare carta e pennello per comporre insieme le 17 sillabe che formano il suo haiku. Mancano in realtà ancora una ventina di giorni alla sua morte e il poeta avrà modo di scriverne ancora uno, di intensa e inconsueta mestizia prima di chiudere gli occhi per sempre. 

La poesia del terzo giorno del primo mese del quinto anno Genbun si apre con un richiamo rivolto al poeta, la voce probabilmente è proprio quella di Bashō, il suo maestro.  Certo non è una voce qualunque quella che il poeta sente, ma quella voce che custodiva nel suo cuore, probabilmente proprio quella che si attende di ascoltare. Accade anche ad alcune anime, quando sono tese come la corda di uno strumento musicale, pronte a risuonare ad uguale accordo, ad uguale intensità. 

In molti, credo, abbiamo fatto esperienza di questo particolare senso dell'ascolto: la voce di qualcuno che è importante per noi ci raggiunge prima che il senso della vista ne sveli la misura del passo, l'atteggiamento del viso, il sorriso consueto. Per chi è innamorato un tale momento è prezioso come il rumore delle acque di un torrente di montagna a lungo cercato tra forre e boschi. Il respiro si fa quasi esitante in quell'istante. 

La voce del maestro chiama, anzi chiama via, non per esortare ad un distacco più risoluto, ma a lasciare un peso ormai superfluo, un impedimento inutile. Via da questa vita fugace. L'inganno è voler trattenere ciò che deve passare, rivendicare ciò che è bene disperdere, indugiare tristemente su ciò che si deve contemplare nel suo trascorrere. 

come una pioggia d'estate.







domenica 25 ottobre 2020

Val la pena tornare, magari diverso

 


Paesaggio


Quest’è il giorno che salgono le nebbie dal fiume

nella bella città, in mezzo a prati e colline,

e la sfumano come un ricordo. I vapori confondono

ogni verde, ma ancora le donne dai vivi colori

vi camminano. Vanno nella bianca penombra

sorridenti: per strada può accadere ogni cosa.

Può accadere che l’aria ubriachi.


                                                            Il mattino

si sarà spalancato in un largo silenzio

attutendo ogni voce. Persino il pezzente,

che non ha una città né una casa, l’avrà respirato,

come aspira il bicchiere di grappa a digiuno.

Val la pena aver fame o esser stato tradito

dalla bocca più dolce, pur di uscire a quel cielo

ritrovando al respiro i ricordi più lievi.


Ogni via, ogni spigolo schietto di casa

nella nebbia, conserva un antico tremore:

chi lo sente non può abbandonarsi. Non può abbandonare

la sua ebrezza tranquilla, composta di cose

dalla vita pregnante, scoperte a riscontro

d’una casa o d’un albero, d’un pensiero improvviso.

Anche i grossi cavalli, che saranno passati

tra la nebbia nell’alba, parleranno d’allora.


O magari un ragazzo scappato di casa

torna proprio quest’oggi, che sale la nebbia

sopra il fiume, e dimentica tutta la vita,

le miserie, la fame e le fedi tradite,

per fermarsi su un angolo, bevendo il mattino.

Val la pena tornare, magari diverso.


                       Cesare Pavese da “Lavorare stanca”

sabato 17 ottobre 2020

così distanti dalle solitudini casuali




Riaffermazione del romantico

La notte non sa nulla dei canti della notte.
È quel che è come io sono quel che sono:
e nel percepire ciò percepisco meglio me stesso

e te. Solo noi due possiamo scambiare
ciascuno con l’altro quel che ciascuno ha da dare.
Solo noi due siamo uno, non tu e la notte,

né la notte e io, ma tu e io, soli,
tanto soli, così profondamente con noi,
così distanti dalle solitudini casuali,

che la notte è solo sfondo ai nostri io,
supremamente fedeli ciascuno al suo diverso io,
nella luce pallida che ciascuno getta sull’altro.


    di Wallace Stevens, traduzione di Massimo Bagicalupo




Wallace Stevens (1879-1955) è da molti considerato il maggiore poeta americano del Novecento; certo non è secondo a nessuno dei massimi coetanei (Eliot, Frost, Pound, Williams), e oggi è il più frequentato e universalmente ammirato, a livello di cultura diffusa come da parte di lettori, studiosi, artisti e poeti; i libri a lui dedicati sono ormai centinaia. Stevens, che nella vita fu dirigente in una importante compagnia di assicurazioni del Connecticut e non visitò mai l'Europa, ha fama di poeta difficile, addirittura impenetrabile, ma i suoi testi hanno la limpidità glaciale di uno specchio in cui i lettori non cessano di trovare immagini e parole per dire la loro condizione (post)moderna. «La poesia» affermò «è una risposta alla necessità quotidiana di afferrare bene il mondo.» Ne esce quasi un manuale di sopravvivenza dove, come nei capolavori della musica e della pittura, la forma sovrana permette al lettore di entrare in un universo più vivido e libero, e così vivere pienamente la propria misteriosa umanità (dal Meridiano Mondadori).

Siamo nel 1936 quando Wallace Stevens  pubblica la raccolta Ideas of Order. Tra i suoi propositi centrale appare quello di ridefinire il romantico come una forza irrinunciabile nella crisi che l'America e l'Europa stavano attraversando alla metà degli anni '30. Sei anni dopo, in una conferenza tenuta mentre gli Stati Uniti stavano entrando in guerra, egli dice: "lo spirito di negazione è stato così attivo, così fiducioso e così intollerante che i luoghi comuni riguardo al romantico ci spingono a chiederci se la nostra salvezza, la nostra via di uscita non sia il romantico." Negli anni successivi alla guerra il poeta americano mostrerà una crescente insoddisfazione per il termine, ma ciò non toglie che è proprio in Ideas of Order che possiamo individuare la prima tappa dello sforzo di fondare un nuovo personale "umanesimo".

In questa poesia emerge uno dei temi centrali di tale sforzo: la suprema natura della poesia si rivela quella di essere ampliamento e arricchimento della realtà, ma essa è allo stesso tempo parte dell'imperfezione del mondo. Nella povertà e nella precarietà della condizione umana, il linguaggio risplende come il nostro tratto più caratteristico e prezioso.

Sono tre i personaggi di Riaffermazione del romantico: la Notte, il poeta e il suo interlocutore. Non è che si deve capire tutto in una poesia, a volte non serve e spesso non si può. Ma qui in questi versi c'è un'affermazione che a me pare straordinaria e struggente. La notte a volte può sembrarci lunghissima, un tempo che non finisce mai. Peggio, può sembrare invincibile, una prigione che non ha uscite, che non lascia scampo, ma la notte non sa nulla dei canti della notte. Vi è un abisso tra lei e il canto del poeta, sono due realtà che non si sfiorano, universi paralleli di dimensioni inavvicinabili, incompatibili.  E l'incredibile avviene. Proprio in ragione di questo fatto, su cui la notte - con la sua brama di negazione del romantico - non ha potere, il poeta può dire al suo interlocutore (mi piace pensare che si rivolga qui alla sua Beatrice)

Solo noi due siamo uno.







domenica 11 ottobre 2020

sotto il torrente dei raggi solari

 


Alla Musa


Come vigoroso il lavoratore afferra

la curva impugnatura dell'aratro, 

lacera il fianco delle terre

e sotto il torrente dei raggi solari

i solchi aridi diventano fertili,


come il grano fulvo nell’aia

si ammassa e i mulini ruggiscono;

come trabocca dalla vasca la pasta lievitata,

e il contadino la cuoce in un forno

che è sempre acceso,


il piacere, il vigore creatore

che diffonde il Pane, il Pane consacrato,

tu insegnami, Musa dei miei padri;

insegnami, e incorona di spighe la mia lira,

perché sull’aia, alla fresca ombra del salice,

io mi possa sedere e generare

le mie canzoni. 


   di Daniel Varujan, traduzione di Antonia Arslan


Riprendo da Antonia Arslan, alla quale dobbiamo la ricezione della poesia di Varujan in Italia, una sintesi della sua vita. Daniel Varujian nasce a Perknik in Anatolia nel 1884. Nel 1896 si reca con la madre a Costantinopoli alla ricerca del padre, arruolato nell'esercito turco e imprigionato dal regime del "Sultano Rosso" Abdul Hamid. Tra il 1896 e il 1898 studiò nel collegio mechitarista a Costantinopoli e poi nella scuola media di Kadikoy, i padri lo inviarono a Venezia presso il collegio Mourad-Rafaelian, dove pubblicò la sua prima raccolta di poesie "Fremiti" (1906), tra il 1906 e il 1909 studiò presso l'Università di Gand nelle Fiandre. Qui scopre i simbolisti francesi e l’influenza del simbolismo europeo sará un carattere stilistico distintivo delle sue opere ed in particolare ne “Il canto del pane”. 


Ritornato in Turchia, si sposa e la sua fama di poeta cresce dopo la pubblicazione del "Il cuore della stirpe" (1909) e "Canti Pagani" (1913); nel 1912 si trasferisce a Costantinopoli dove lavora come direttore di una scuola. Nascono due bambini; il terzo nasce proprio nel 1915; in questi anni Varujan si accosta al cristianesimo e inizia a scrivere "Il canto del pane" raccolta rimasta incompiuta. 

Fra la notte del 23 e 24 aprile 1915 l'élite armena di Costantinopoli fu arrestata e deportata nel deserto; molti di loro vennero prelevati dalle loro case; Varujan verrà ucciso a colpi di pugnale il 26 agosto (muore a 31 anni) prima dell'arresto aveva in mente di proseguire "Il Canto del Pane" scrivendo una seconda raccolta che avrebbe intitolato "'Il Canto del Vino". Quando fu ucciso aveva in tasca Il Canto del Pane; questo testo fu creduto perduto per molti anni; ma alcuni amici superstiti, dopo la fine della prima guerra mondiale, cercarono di recuperarlo, affidandone la ricerca ad un agente segreto, Arshavir Esayan, che lo ritrovò fra i beni sequestrati agli armeni. Pubblicato postumo a Costantinopoli, nel 1921, Il Canto del Pane divenne il simbolo della vita del popolo.


La poesia che qui viene presentata è quella di apertura della raccolta, il titolo stesso, Alla musa e il tono dell'invocazione lo dimostrano con ogni evidenza. Sin dall'inizio siamo chiamati ad osservare una scena di vita campestre, il momento dell'aratura, quando si semina nell'attesa di raccogliere il frutto della propria fatica. Per molti di noi, abituati ai ritmi della città, al trascorrere del tempo scandito da orologi elettronici più che dal mutare della natura, si tratta di una visione inusuale, per molti versi lontana dalla nostra esperienza. E tuttavia la strofa di apertura di questa poesia arriva con forza, oltrepassa le barriere delle nostre abitudini e ci afferra stretti. Ecco che all'immagine del vigore del braccio che impugna l'aratro si salda l'annotazione precisa della sua forma ricurva. I fianchi della terra sono lacerati e ciò che è arido ora diviene fertile. Non c'è raccolto se il vigore dell'uomo non solleva la terra, se non smuove con fatica sassi e zolle per portare alla luce ciò che è fertile. 

L'immagine non è edenica: Ci vuole vigore e anche τέχνη, l'aratro dovrà essere ben costruito, la curva del manico quella e non un'altra, la lama affilata il giusto; serve amore per quello che non si vede, che va portato alla luce. Ma al tempo stesso tutta la fatica dell'uomo non avviene sotto un cielo indifferente, ma sotto il torrente dei raggi solari. Un fluire generoso, ininterrotto di luce e calore che delinea un paesaggio, una forma storica della presenza dell'uomo, del suo rapporto con la terra. 

Così dovrà essere la poesia ispirata dalla musa.

Della seconda stanza colpisce la vitalità dei colori e dei verbi: i mulini ruggiscono mentre il fulvo grano viene ammassato nell'aia. La pasta lavorata dalle mani operose trabocca dalla vasca, il fuoco riscalda un forno sempre acceso. Il biondo dorato del grano, il bianco della farina, il rosso del fuoco.

Così dovrà essere la poesia ispirata dalla musa.

Infine ecco l'ultima stanza: la mia poesia - chiede il poeta - sia come il Pane che diffonde piacere e  vigore creatore. Certo il pane che sfama e ristora le forze, ma anche il Pane, quello consacrato con gesti antichi su un altare venerato con amore, in riti scanditi dal suono di cembali, circonfuso dal profumo dell'incenso.

insegnami, Musa dei miei padri

non una musa qualunque, non La Musa che ovunque ispira il canto, dal Caucaso al mare e oltre il mare. Tu - dice il poeta - Musa dei miei padri tu ispirami, tu che conosci queste valli e questi campi e queste fonti che noi contempliamo fin da bambini, anche se presto uomini violenti di qui ci scacceranno. Un paesaggio che è il nostro orizzonte, la fonte della nostra storia, perché noi ciò che guardiamo lo guardiamo con una vista a cui questo paesaggio ha dato la sua forma e la sua melodia.

Musa dei miei padri ... Quanto è prezioso questo verso e quanto è doloroso immaginarlo lì, su un taccuino ritrovato sul corpo senza vita del poeta, massacrato tra tanti altri, un corpo ammucchiato tra tanti altri, messo a tacere, ma solo per un po'. 



martedì 29 settembre 2020

e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra

 



Prova a cantare il mondo storpiato


Prova a cantare il mondo storpiato.

Ricorda di giugno le lunghe giornate

e le fragole, le gocce di vin rosé,

e le ortiche implacabili a coprire

le dimore lasciate dagli esuli.

Devi cantare questo mondo storpiato.

Hai visto navi e yacht eleganti

Alcuni dinanzi avevano un lungo viaggio,

ad attendere altri era solo il nulla salmastro.

Hai visto i profughi andare da nessuna parte,

hai sentito cantare di gioia i carnefici.

Dovresti cantare il mondo storpiato.

Ricorda quegli attimi in cui eravate insieme

e la tenda si mosse nella stanza bianca.

Torna col pensiero al concerto, quando esplose la musica.

D’autunno raccoglievi ghiande nel parco

e le foglie roteavano sulle cicatrici della terra.

Canta il mondo storpiato

e la penna grigia perduta dal tordo,

e la luce delicata che erra, svanisce

e ritorna.


di Adam ZAGAJEWSKI, traduzione di Valentina Parisi 

giovedì 24 settembre 2020

Canta come se nulla fosse

 



CHIEDO IL SILENZIO

... canta, lastimada mia

Cervantes


anche se è tardi, è notte,

e tu non puoi.


Canta come se nulla fosse.


Nulla è.


di Alejandra Pizarnik



Ritorno, con questa poesia sul tema del silenzio e della solitudine. Non il silenzio di chi abbia perduto interesse al mistero della condizione umana, né la solitudine di chi abbia smarrito il ricordo di canti attorno al fuoco o dell'abbraccio che accoglie sulla soglia di casa dopo lungo andare. 

E' un silenzio diverso che nella poesia di Alejandra Pizarnik si chiede. E' notte, un'ora tarda in cui tutti dormono o dovrebbero dormire. La stessa ora forse del passo del Don Chisciotte (seconda parte, capitolo XLIV) citato a margine del titolo: Emerenza invita l'amica Altisidora a cantare una serenata per il cavaliere della Mancia.  

"Canta, lastimada mía, en tono bajo y suave, al son de tu harpa" ...

"Canta, mia sventurata, in tono basso e dolce, al suono della tua arpa"...

Nel breve componimento della poetessa argentina tutto comincia dal titolo: "chiedo il silenzio". Bisogna che ogni suono si arresti e ogni voce taccia perché lei possa cominciare a parlare.

anche se è tardi, è notte,

e tu non puoi 

Lo fa con riserbo e delicatezza, sa che nulla può pretendere: lo so che è notte e che è tardi e che forse nemmeno è possibile, sembra voler dire, quasi a scusarsi. E poi questo verso sbalorditivo, forte come un grido disperato e nel profondo tuttavia simile ad una preghiera che sorpassa lo spazio ed il tempo:

Canta come se nulla fosse.


mercoledì 16 settembre 2020

una cosa di nessuno

 


        Largo


O lasciate lasciate che io sia 

una cosa di nessuno

per queste vecchie strade

in cui la sera affonda -


O lasciate lasciate ch'io mi perda

ombra nell'ombra -

gli occhi 

due coppe alzate

verso l'ultima luce -


E non chiedetemi - non chiedetemi

quello che voglio

e quello che sono

se per me nella folla è il vuoto

e nel vuoto l'arcana folla

dei miei fantasmi -

e non cercate - non cercate

quello ch'io cerco

se l'estremo pallore del cielo

m'illumina la porta di una chiesa

e mi sospinge ad entrare -


Non domandatemi se prego

e chi prego

e perché prego -


Io entro soltanto

per avere un po' di tregua

e una panca e il silenzio

in cui parlino le cose sorelle -


Poi ch'io sono una cosa -

una cosa di nessuno

che va per le vecchie vie del suo mondo -

gli occhi

due coppe alzate

verso l'ultima luce -


Milano, 18 ottobre 1930


di Antonia Pozzi

sabato 12 settembre 2020

ci solleva dall'arbitrio dei sogni

 


        C'è una certa ora ...

                                                                  (Tjutčev)


C'è una certa ora - come un peso buttato via:

quando in noi l'arroganza è domata.

Un'ora di apprendistato, in ogni esistenza

trionfalmente ineluttabile.


Un'alta ora, in cui, deposta l'arma

ai piedi di chi ci ha indicato - il Dito,

la porpora di guerriero con il pelo di cammello

scambiamo sulla sabbia del mare.


Oh, quell'ora, che all'impresa come una Voce

ci solleva dall'arbitrio dei giorni!

Oh quell'ora, in cui come spiga matura,

ci pieghiamo sotto il nostro peso.


E la spiga cresce e scocca l'ora della gioia,

e il grano brama la macina.

Legge! Legge! Già nell'utero della terra

giogo da me concupito.


Ora dell'apprendistato! Ma un'altra luce

ci si fa vedere e conoscere - appena accesa l'aurora.

Te benedetta, ora suprema della solitudine

che passo passo la segui!



15 aprile 1921


di Marina Cvetaeva


Sostiene Jorge Luis Borges che “qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è”. 

La poesia di Marina Cvetaeva parla proprio di questo, di quel momento, di quell'ora che è come un peso buttato via. Un grave fardello pesava su di noi, rallentava il passo: in quei giorni la mente sta ferma e il cuore si fa pesante. Ed ecco viene l'ora in cui questo peso, d'un tratto, è buttato via. Come è possibile? In un verso straordinario la poetessa russa cattura con esattezza il carattere speciale di questo tempo: quando in noi l'arroganza è domata. Ogni parola è qui scelta e disposta nel verso con nitidezza:  l'orgoglio (гордыню in russo vuol dire arroganza ed anche orgoglio) infatti è domato da una forza più grande, non è abbandonato con il distacco della raggiunta sapienza, ma vinto da sconfitte e delusioni, sottoposto alla ferrea legge dell'inevitabile. Non ha 'rinunciato' la Cvetaeva al suo orgoglio, come - forse - non possiamo rinunciarci noi. Piuttosto ne contempla la sconfitta.

Un'ora di apprendistato tuttavia è questa: l'io lirico dice di aver imparato qualcosa di importante, come un apprendista che ruba il mestiere all'artigiano suo maestro. Credeva di sapere  - nella sua/nostra arroganza - ha invece sperimentato - così come fa l'apprendista di una bottega - imparando ciò che non conosceva. 

Quest'ora è poi un'ora di trionfo, un'alta ora che ci solleva all'impresa dall'arbitrio dei giorni. Non è un'ora qualsiasi, un momento di un tempo, sempre uguale, senza volto. E' l'ora in cui ci appropriamo davvero del nostro destino; come il generale che celebra il trionfo tra i canti dei suoi soldati dirigendosi verso il tempio dove deporrà le armi del nemico vinto. 

Abbiamo qui la rappresentazione di due diversi movimenti: il primo indica la direzione che spinge all'impresa. La vita acquista sapore e significato nell'ora in cui scopriamo l'impresa a cui siamo destinati. Il secondo movimento rappresenta il distacco, il sollevarsi dall'arbitrio dei giorni ... Mi fermo un attimo, quasi senza fiato di fronte ad un verso meraviglioso, in cui brilla la ragione stessa del linguaggio poetico che, secondo Ezra Pound ,"è l'arte di caricare ogni parola del suo massimo significato". Profondissima intuizione, se di intuizione si tratta e non invece, come sembra, di ispirazione. L'ora del nostro apprendistato è l'ora che ci solleva, ci libera, potremmo anche dire, da una forza contraria che si oppone al nostro sollevarci e all'impresa che ci attende. Tale forza ha un nome, quello di arbitrio, che ben si adatta ad un imperio ferreo ed insensibile, incapace per natura di dare giustificazione delle sua azioni. L'arbitrio dei giorni è ciò che spesso viviamo: giorni si accumulano su giorni secondo un ordito la cui tessitura ci pare incomprensibile più che ingiusta. Al giorno della gioia succede quello della amarezza, a quello del morso dell'amore quello dello sguardo indifferente; il passo che ieri procedeva sicuro sulle creste ventose si muta d'un tratto nella esitante cautela. E' da tutto questo che l'ora dell'apprendistato ci solleva.

Oh quell'ora, in cui come spiga matura,

ci pieghiamo sotto il nostro peso

La stessa ora che solleva all'impresa è anche quella in cui, simili ad una spiga matura, ci pieghiamo sotto il nostro peso, forse l'ultimo passaggio del nostro apprendistato. Accogliere con gioia il destino che ci sottrae all'arbitrio del tempo, bramare la macina e l'ora dell'aurora che si accende. Un'altra luce ci si fa vedere e conoscere e possiamo benedire la suprema solitudine che ne segue il passo.

sabato 29 agosto 2020

ascolta il loro canto e taci!

 


Silentium!


Taci, nasconditi ed occulta

i propri sogni e sentimenti;

che nel profondo dell’anima tua

sorgano e volgano a tramonto

silenti, come nella notte

gli astri; contemplali tu      e taci.


Può palesarsi il cuore mai?

Un altro potrà mai capirti?

Intenderà di che tu vivi?

Pensiero espresso è già menzogna.

Torba diviene la sommossa

Fonte: tu ad essa bevi     e taci.


Sappi in te stesso vivere soltanto.

Dentro te celi tutto un mondo

d’arcani, magici pensieri,

quali il fragore esterno introna,

quali il diurno raggio sperde:

ascolta il loro canto     e taci!..


di Fëdor Tjutčev, traduzione di Tommaso Landolfi 



Appartenente a una famiglia dell’aristocrazia moscovita,  Fëdor Ivanovič Tjutčev (1803-1873) 

fu diplomatico oltre che eminente poeta, e dopo aver iniziato la carriera nel Collegio degli Affari esteri di Pietroburgo operò come incaricato speciale a Monaco di Baviera – dove frequentò Heine, Schelling e gli ambienti del Romanticismo tedesco – e a Torino, dove visse dal 1837 al 1839. Nel 1836 alcune sue liriche furono pubblicate dalla rivista di Puškin «Il contemporaneo», suscitando i primi, ampi consensi. Nel 1844 tornò definitivamente in Russia, mentre la sua fama di poeta cresceva dopo i riconoscimenti tributatigli da Turgenev, Fet, Dobroljubov.

Il suo universo poetico è un coacervo di visioni cosmogoniche e di rappresentazioni metafisiche che rispecchiano un dualismo di tipo manicheo: vi sono due mondi, il Caos e il Cosmo, e il secondo altro non è se non l’organismo vivente della natura, un’essenza viva e pulsante ma secondaria rispetto al Caos, l’unica vera realtà, di cui il Cosmo rappresenta un’effimera scintilla. La cosmogonia di Tjutčev si nutre di contrasti tra inaccessibili vertici di perfezione e desolate lande nordiche o spaventosi abissi dominati dal disordine notturno e dall’instabilità spettrale del fato. A questo mondo che non conosce la gioia del possesso, ma solo la perdita, la caduta, il rimpianto, e insieme la vertigine del solitario destino umano, dà voce, con esiti memorabili, la versione di Tommaso Landolfi, scrittore così affine a Tjutčev per sensibilità e magistero poetico: centoundici componimenti – trascelti lungo l’intero arco creativo del poeta – dalla struttura concisa, austera, incalzante, in cui si riversa un’inquietudine antesignana non solo del simbolismo, ma della nostra stessa sensibilità contemporanea (dal risvolto del volume Adelphi).

venerdì 14 agosto 2020

questo passo d'addio

 


Devota come ramo

curvato da molte nevi

allegra come falò

per colline d'oblio,


su acutissime làmine

in bianca maglia d'ortiche,

ti insegnerò, mia anima,

questo passo d'addio...



        di Cristina Campo


"Passo d'addio" è il titolo che Cristina Campo volle dare ad una breve raccolta di undici poesie apparse nel dicembre del 1956 e poi confluite insieme ad altri componimenti sparsi nel volume "LA TIGRE ASSENZA" pubblicato per i tipi di Adelphi.  


Il titolo non è casuale in quanto il passo d’addio è l’ultimo passo di danza che "l’allieva disegna prima di lasciare l’accademia: immagine quindi dell’ultimo canto con cui congedarsi da una stagione di vita terminata prima di iniziarne una nuova", così Rossella Farnese su analisi-del-canzoniere-passo-daddio-di-cristina-campo-1923-1977-a-cura-di-rossella-farnese/comment-page-1/ . 

Anche in questa poesia, posta a chiusura del libretto campiano,  l'immagine del "passo d'addio assume un rilievo fondamentale: per la rima significativa che la lega all'ultima parola della prima stanza - oblio -  ed anche per i puntini di sospensione che seguono ad indicare appunto la vita nuova che l'attende.

La discrezione elegante del passo d'addio è preparata nella prima stanza da due diverse similitudini: nella prima la poetessa dice di essere devota come ramo/curvato da molte nevi. Colpisce la visione della neve e del bianco (tale elemento coloristico attraversa in effetti l'intera raccolta e ritorna nella seconda stanza), che non è forse  assenza di colore e di vita, paralisi del sentire, atrofia dello stupore, ma al contrario forza che spinge alla concentrazione, al ripiegamento su ciò che è imperdibile. Se nel linguaggio comune curvato spesso finisce per definire il piegarsi controvoglia ad un destino avverso, nel verso in questione il termine si carica di significati altri, si riveste di una potenza allegorica che muove dalla compostezza di antichi gesti rituali: la postura china verso il cuore del monaco esicasta, il capo ripiegato del presbitero di fronte al turibolo da cui sale l'incenso, la notte in ginocchio della veglia d'armi del cavaliere. Curvarsi è in tal senso assumere il proprio posto nel mondo, diventare ciò che si era destinati a diventare per propria vocazione naturale. Certo c'è anche - in questo curvarsi - tutto il peso e la fatica che ogni vita comporta per ritrovare il proprio centro, per "spogliarsi di ogni ornamento" e ricondurre "tutto quanto è possibile verso la vita e la risposta alla vita, dallo stato di narcosi che stringe tutto sempre più da vicino" (così scriveva Cristina Campo all'amica Margherita Pieracci Harwell nel febbraio del '58.

Nella seconda similitudine ritroviamo di nuovo uno stato interiore espresso da un aggettivo - allegra - accostato ad un elemento naturale, il fuoco di un falò la cui fiamma riluce nel buio delle colline d'oblio. Ritrovo in questa potente immagine qualcosa della lirica di apertura dell'Antologia di Spoon River intitolata "La collina", nella quale l'io lirico, osservando le tombe d'intorno, ripete più volte il nome di coloro che sono morti:  dove sono? ... dove sono?  Sulla "collina" giacciono uno accanto all'altro i morti del passato: onesti e dissoluti, saggi e folli,  uomini importanti e vagabondi, la sepoltura anonima del giudice Somers e l'imponente urna di marmo di Chase Henry, l'ubriacone del villaggio.


Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

[...]

Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,

la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?

Tutte, tutte, dormono sulla collina.


Una morì di un parto illecito,

una di amore contrastato,

una sotto le mani di un bruto in un bordello,

una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,

una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,

ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag –

tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.

                          (traduzione di Fernarda Pivano)

Tutti sono dimenticati allo stesso modo sulla collina, ma a tutti Edgar Lee Masters vuole lasciare la parola perché raccontino la propria storia, piena di una nuova ed insolita dignità, meritevole di un'attenzione imprevista. In modo simile, nella poesia di Cristina Campo, la luce del falò che rischiara il buio delle colline dell'oblio sfida l'imperio della rassegnazione al nulla e il dominio della necessità.  Ma questo fuoco è anche allegria: la poetessa dice infatti di essere allegra come falò: rischiara l'oscurità e in ciò è la sua gioia. 

C'è un passaggio di una lettera della Campo, citato da Margherita Pieracci Harwell in "Il sapore massimo di ogni parola", l'articolo che chiude il volume "La tigre assenza", che - credo - aiuti a comprendere meglio questa l'immagine poetica del falò, dell'allegria e delle colline d'oblio. Parlando della propria vocazione alla poesia, Cristina Campo nel luglio del 1958 scrive infatti : " ... sto nel buio, ma vorrei fare qualche cosa che agli altri sembrasse nato alla luce." Ecco proprio in questi versi mi sembra di intravedere la soglia di quella vita nuova, di cui Salomone - si dice - abbia scritto

"Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia

perché questo ci spetta, questa è la nostra parte."  (Sapienza 2.9)

Ecco seguiamola ancora per un attimo la poetessa mentre si appresta a disegnare il suo ultimo passo d'addio.