Cerca nel blog

lunedì 30 dicembre 2019

un’Itaca di verde eternità


Tetons and Snake river by Ansel Adams


ARTE POETICA


Guardare il fiume ch’è di tempo e acqua
e ricordare che anche il tempo è un fiume,
saper che ci perdiamo come il fiume
e che passano i volti come l’acqua.

Sentire che la veglia è anch’essa un sonno
che sogna d’esser desto e che la morte
che teme il nostro corpo è quella morte
di ogni notte, che chiamiamo sonno.

Decifrare nel giorno o l’anno un simbolo
dei giorni dell’uomo e dei suoi anni,
convertire l’oltraggio empio degli anni
in una musica, un rumore e un simbolo,

dire sonno la morte, nel tramonto
vedere un triste oro, è la poesia
eterna e povera. La poesia
che torna come l’aurora e il tramonto.

A volte appare nelle sere un volto
e ci guarda dal fondo d’uno specchio;
l’arte deve esser come quello specchio
che ci rivela il nostro stesso volto.

Narran che Ulisse, stanco di prodigi,
pianse d’amore nello scorgere Itaca
verde e umile. L’arte è anch’essa un’Itaca
di verde eternità, non di prodigi.

È anch’essa come il fiume interminabile
che passa e resta e riflette uno stesso
Eraclito incostante, che è lo stesso
ed un altro, come il fiume interminabile.

                                              di Jorge Luis Borges



giovedì 26 dicembre 2019

l'inflessibile fato di lui


Natività di Andrej Rublev, galleria Tret'Jakov di Mosca



Se in te semplicità non fosse, come
T’accadrebbe il miracolo
di questa notte lucente? Quel Dio,
vedi, che sopra i popoli tuonava
si fa mansueto e viene al mondo in te.

Più grande forse lo avevi pensato?
Se mediti grandezza: ogni misura umana
dritto attraversa ed annienta
l’inflessibile fato di lui. Simili
vie neppure le stelle
hanno. Son grandi, vedi, questi re;
e tesori, i più grandi agli occhi loro,
al tuo grembo dinanzi essi trascinano.
Tu meravigli forse a tanto dono:
ma fra le pieghe del tuo panno guarda,
come ogni cosa Egli sorpassi già.
Tutta l’ambra imbarcata dalle terre più remote,
i gioielli aurei, gli aromi
che penetrano i sensi conturbanti:
tutto questo non era che fuggevole
brevità: d’essi, poi, ci si ravvede;
ma è gioia – vedrai – ciò che Egli dà.


  di Rainer Maria Rilke


E' alla Vergine Maria che la voce di questa poesia si rivolge, a lei che è il fulcro attorno al quale ogni rappresentazione artistica della Natività si è costruita nei secoli, lei termine fisso d'etterno consiglio .
Se non vi fosse stata nella sua natura semplcità, il miracolo di questa notte lucente mai avrebbe potuto essere: l'immensamente grande che si fa mansuetudine. Rilke coglie con grande lucidità la dismisura enorme tra le leggi remote che regolano gli interminati spazi delle stelle e la precarietà di quella notte a Betlemme.

Sempre Maria vediamo dominare al centro della stupenda icona di Rublev dedicata alla natività: non è rivolta verso il bambino, ma verso i Magi che giungono, è rivolta verso il mondo potremmo dire. Colei che ha generato il suo Creatore, rappresenta la nostra umanità, il suo grembo è nello stesso asse di simmetria della stella e quindi del bambino. Colpisce il fatto che non lo guardi, significa che anche lei è compenetrata dal Mistero che l'attende, assorta nella contemplazione di quanto di straordinario è avvenuto: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2, 57).

Questo atteggiamento pensoso, meditativo di Maria lo ritroviamo anche nei versi di Rilke: fra le pieghe del tuo panno guarda/come ogni cosa Egli sorpassi già. Dentro di sé dovrà guardare per vedere al di là delle fugaci apparenze e svelare la fuggevole brevità degli ornamenti terreni.
In quello sguardo distolto dalla grotta oscura dove il bambino riposa nella mangiatoia, un evidente richiamo al sepolcro della deposizione, in quell'invito rivolto a Maria -  fra le pieghe del tuo panno guarda - sta probabilmente il segreto della forza di suggestione che da secoli la figura della Vergine continua a suscitare in artisti, poeti e negli uomini a cui accade ciò che Rimbaud ("Natale sulla terra") dice :

 Dallo stesso deserto,
nella stessa notte,
sempre i miei occhi stanchi si destano
alla stella d’argento,
sempre

sabato 21 dicembre 2019

Solstizio d'inverno



Utagawa Hirosige, Bel tempo dopo la neve


Languore d’inverno:

nel mondo di un solo colore

il suono del vento.


di Matsuo Bashō



Salutiamo il solstizio d'inverno con un haiku di Matsuo Bashō. Un minimo orizzonte di parole, secondo la definizione di Roland Barthes, racchiude tutto ciò che vedete, un frammento del fluire della vita dell'Universo sospeso in una percezione irripetibile:
uno stato di estenuazione fisica ed interiore, ma al tempo stesso di composto rilassamento ...  languore d'inverno.
La vista percorre lo spazio d'intorno, un mondo di un solo colore. Tutto è bianco per la neve caduta, immobile, la natura sembra trattenere le sue voci, sospendere il suo stesso respiro, ma ecco a risvegliare in noi la consapevolezza del trascorrere di ogni cosa, anche del gelido inverno, anche della notte che lentamente retrocede al giorno, ... il suono del vento.

Ci sono tempi 'invernali' che dobbiamo attraversare, ore in cui sembra che tutto è diventato di un solo colore e che tutto sia cristallizzato, spossessato da ogni vitalità. Orazio ha colto in modo molto efficace questa sensazione in una delle sue Odi più celebri:

Tu vedi come si levi, bianco per la neve profonda,
il Soratte, come non sostengano più il peso
i boschi affaticati e per il gelo

penetrante i ruscelli si siano fermati.

Ogni verbo in questi versi indica una stasi, una fissità addirittura innaturale per i boschi e i fiumi. Così si sente il poeta nella stagione della sua vita in cui la giovinezza è già un ricordo. L'inverno della vita non genera rimpianto, ma l'invito al suo amico a porre legna abbondante sul fuoco e a versare il vino migliore per scacciare freddo e paura. L'amicizia e il vivere dando valore al giorno (quem Fòrs dièrum cùmque dabìt lucro/adpòne) sono i rimedi dati all'uomo.

Bashō ci mostra una strada diversa, che conduce nel cuore stesso di quel mondo di un solo colore, lì tra il bianco della neve, tra i boschi che quasi non ne sostengono più il peso e dove l'acqua stessa pare fermarsi ... tendere lo spirito, affinare la percezione, ecco 
... il suono del vento.









giovedì 12 dicembre 2019

Io vivo nella Possibilità





Io vivo nella Possibilità,
una casa più bella della Prosa,
di finestre più adorna,
e più superba nelle sue porte.

Ha stanze simili a cedri,
impenetrabili allo sguardo,
e per tetto la volta
perenne del cielo.

L’allietano visite dolcissime.
E la mia vita è questa:
allargare le mie piccole mani
per accogliervi il Paradiso

di Emily Dickinson (traduzione di Margherita Guidacci)

Forse è in questa lirica di Emily Dickinson che è possibile trovare la più convincente definizione di poesia... il luogo della possibilità. Una casa ricca di finestre e superba nelle sue porte, stanze che si innalzano come cedri del Libano verso la volta perenne del cielo.

Se c'è qualcosa che vale la pena fare abitando nella possibilità questo è mettersi in ascolto, ricevere ciò che è più grande e che discende dall'Alto...

allargare le mie piccole mani
per accogliervi il Paradiso



sabato 7 dicembre 2019

dove tutto piange per come va il mondo



Foto di Rachel Talibert

CENTO VIRGILIANUS


E così, passando sotto la cupola del cielo immenso,
sospinti da tempeste e mari in burrasca, giungemmo,
chiedendoci su quale spiaggia del mondo
fossimo stati gettati. L'ululare dei cani 
si udiva per tutto il crepuscolo
e sulle tombe il crepitare che fa
un fuoco di stoppie sferzato dal vento;
e poi, da cortili ghiacciati
i lamenti striduli delle  donne si alzarono
contro le silenti stelle dorate.
All'inizio, non ci mancavano le città da cui eravamo partiti -
le case dipinte di rosa e di verde, i cigni che si cibano
tra le canne del fiume, gli scrosci di luce estiva
che  scorrono sui  pascoli.
Che importava  se avevamo sperato di trovare Apollo qui,
finalmente in trono, che importava se un freddo attanagliante
ci gelava le ossa. Eravamo giunti in un luogo
dove tutto piange per come va il mondo.

   di Mark Strand

Un "centone" è un componimento costruito con la giustapposizione di espressioni, versi o emistichi di un autore famoso, questo genere fu particolarmente coltivato nella classicità e nel Medioevo.
L'ispirazione di questa poesia, composta nel 1987, venne a Strand durante un periodo di inattività che lo aveva portato a dedicarsi al giornalismo e alla critica, fino a quando - è stato lui stesso a dichiararlo - fu ispirato da un seminario su Virgilio e dalla lettura della traduzione dell'Eneide di Robert Fitzgerald. Cento Virgilianus apparve poi nella raccolta The Continuous Life, pubblicata nel 1990.

A parlare in questa poesia è uno dei marinai di Enea, uno qualunque, nemmeno il nome sappiamo di lui, descrive il viaggio sotto la cupola del cielo immenso, una navigazione perigliosa, segnata da burrasche e tempeste che hanno gettato i Troiani, profughi per volere del Fato, su una terra ignota e straniera.

Sono le sensazioni uditive a colpirci: l'ululare dei cani, il crepitare del fuoco, i lamenti striduli delle donne. Mentre nel crepuscolo la vista coglie  un paesaggio ostile: tombe su cui si accendono fuochi di stoppie e cortili ghiacciati. Non sembra un bel posto per costruirci una casa, del resto non è che l'hanno scelto, vi sono stati gettati. Eppure...

Eppure la felicità passata non è rimpianta, né le speranze deluse lasciano nello sconforto. Apollo non abita in questa terra desolata così come il caldo e la luce delle pianure della Troade sono solo un ricordo lontano, ma non motivo di lamento.

... Eravamo giunti in un luogo
dove tutto piange per come va il mondo.

Che importa tu dici, coraggioso compagno di Enea, che importa questo freddo che un fuoco di stoppia non riscalderà, che importa il trono vuoto di Apollo che non indicherà la rotta, almeno per  il momento. E' qui, dove tutto piange per come va il mondo, il luogo dove vale la pena stare, qui dove il destino di ogni essere ferito da sventura e miseria è sottratto a oblio e indifferenza.




mercoledì 4 dicembre 2019

quella notte di dicembre






Una rara foto di Bobby Sands scattata nell'Agosto del 1976, pochi giorni prima del suo arresto




UN PENSIERO NELLA NOTTE

Mentre dall'oscurità esterna la pioggia veniva giù pesante,
in lastre d'argento che precipitano
sulla superficie nera d' asfalto
scagliando fuori un milione di fate,
di figure da favola
che saltavano e si aggiravano in movimenti frenetici,
il vento urlava triste
e sfiorava i bagliori di un migliaio di luci che illuminano il                                                                                            [ cielo.
     Quando il vento si mosse all'attacco,
chilometri di grigio filo spinato iniziarono ad ondeggiare
ed agitarsi in segno di protesta.
Un cancello non chiuso sbatté
e l'abbaiare spaventato di un cane da guardia
serrò il vento e lo portò dentro la notte.
Poi, come se il buon Dio avesse schioccato le dita,
cadde il silenzio.
     Il vento era domato e le fate
si aggrappano al filo grigio
come una moltitudine di perle scintillanti.
La calma che seguì
e l'improvviso silenzio sospeso,
come soprannaturale, rimase,
finché non la turbò un gemito
dal cancello non chiuso
e le urla penetranti e taglienti
di viaggiatori notturni non visti
misti a urla di uccelli.
Le pozzanghere di pioggia argentata
luccicavano, mentre la notte,
passando, si assestava per ristabilirsi
dalla dura violenta prova.
E io guardavo una stella lontana
per sognare
nella tranquillità rinata.
Intanto volava
la fredda umidità
di quella notte di dicembre.

       Prigione di Long Kesh, Irlanda del Nord

                               di Bobby Sands


Bobby Sands era un volontario del Provisional Irish Republican Army, fu arrestato nel 1977 e condotto nei famigerati H blocks nella prigione di Long Kesh. All'interno della struttura i detenuti repubblicani vengono sottoposti a un regime durissimo: soprusi, fame, freddo, torture, umiliazioni. Bobby Sands scrive articoli  e testi di nascosto su cartine per sigarette o su pezzi di carta igienica, i suoi scritti sono fatti uscire dal carcere con numerosi stratagemmi e pubblicati dal giornale repubblicano An Phoblacht-Republican News. Organizza e guida varie proteste contro il sistema carcerario inglese, rivendicando sopratutto lo status di prigioniero politico, ma le richieste dei militanti repubblicani vengono di fatto respinte, perciò i prigionieri indicono un nuovo sciopero della fame. Bobby Sands inizia a rifiutare il cibo il 1 marzo del 1981 e morirà in carcere nelle prime ore del 5 maggio dello stesso anno, all'inizio del suo sessanteseiesimo giorno di sciopero della fame. 

Il testo che propongo qui, in ricordo di quella notte di dicembre non è scritto in forma di poesia, ma ha un suo ritmo speciale intrinsecamente poetico così come di poesia hanno il sapore le parole e le immagini usate da Bobby Sands.




domenica 1 dicembre 2019

come una parola che matura ancora nel silenzio


Rainer Maria Rilke ritratto da Leonid Pasternak


Esordio

Chiunque tu sia: esci la sera
dalla tua stanza ove sai ogni cosa;
ultima prima della lontananza è la tua casa:
chiunque tu sia.
Con i tuoi occhi stanchi che a fatica
si staccano dalla soglia consunta,
sollevi lentamente un albero nero
e lo metti davanti al cielo: snello, solo.
E hai fatto il mondo. E il mondo è grande
e come una parola che matura ancora nel silenzio.
E appena la tua volontà ne intende il senso,
dolcemente lo lasciano i tuoi occhi

   R.M. Rilke, da Il libro delle immagini



Chiunque tu sia ...  esci dalla tua stanza. Cosa è questa stanza se non quel luogo dove pensiamo di conoscere ogni cosa ? Gli oggetti ci sono consueti, persino lo scorrere del tempo segue un percorso familiare, riconoscibile. Abbiamo preso le misure al mondo: ciò che ci circonda parla secondo una grammatica rassicurante. Non fa differenza chi siamo, in questa stanza è così che si vive.
Una soglia consunta separa la casa da un altro spazio, lo spazio della lontananza. La soglia è consunta, ma sembra che uscirne fuori non sia cosa frequente, né agevole, altrimenti gli occhi stanchi non si staccherebbero da essa a fatica. Non è quindi dall'uso continuato che la soglia è consunta. Piuttosto sembrerebbe che chi vi abita abbia spesso indugiato su di essa, soffermandosi incerto su quel confine senza superalo. La stasi paralizzante non l'attraversamento, il soffermarsi invece dell'uscire fuori. 
Frutto del luogo in cui conosciamo il nome di tutte le cose e della casa che si trova ultima sul confine con la lontananza, è la stanchezza: gli occhi sono stanchi di guardare senza trovare il sentiero che conduce oltre. Le parole anche risuonano stanche lì dove sappiamo ogni cosa, perché vengono scovate dentro di sé, radunate da un io che rovista con lo sguardo rivolto a profondità ctonie. 
Come ha notato Amelia Valtolina (che insegna Letteratura Tedesca all’Università degli Studi di Bergamo ed è un'esperta di letteratura e poesia tedesca del Novecento) in questa poesia è rintracciabile un “rinnovato sguardo sulle cose”: «Nel rischio di una visione liberata dall’intralcio dell’io (“Chiunque tu sia”) sorge una parola orfica: l’albero – lo stesso che si eleverà nel primo dei Sonetti a Orfeo».

Un albero si leva – o puro sovrastare!
Come canta Orfeo! – e il grande albero è in ascolto!
E tutto fu silenzio. Ma proprio in quel tacere
avvenne un nuovo inizio, cenno, mutamento.

Orfeo che suona la lira, di Henri Martin
Solo là fuori, nel dirigersi verso la lontananza è possibile l'avvento del mondo di Orfeo, il primo poeta, il fondatore della poesia. Che viene al mondo come espressione diretta di un dono divino, capace di incanto assoluto: alla voce di Orfeo, il cantore, un albero si leva e si pone in ascolto. 

Solo là, nella lontananza, tra le orme dei passi difficili mossi oltre la soglia consunta è possibile il gesto di Orfeo: 

sollevi lentamente un albero nero 
e lo metti davanti al cielo ...

La parola pronunciata dal poeta è creatrice di un mondo grande, il quale ascolta raccolto in un silenzio assoluto e proprio in quel tacere, finalmente ... ecco  un nuovo inizio.


mercoledì 27 novembre 2019

Ti attendo più oltre dei limiti



The Fisherman and the Syren, Frederic Leighton


Ciò che tu sei
mi distrae da ciò che dici.

Lanci parole veloci
inghirlandate di risa,
e mi inviti ad andare
dove mi vorranno condurre.
Non ti do retta, non le seguo:
sto guardando
le labbra dove sono nate.

Guardi, improvvisa, lontano.
Fissi lo sguardo lí, su qualcosa,
non so che, e scatta subito
a carpirla la tua anima
affilata, di saetta.
Io non guardo dove guardi:
sto vedendo te che guardi.

E quando tu desideri qualcosa
non penso a ciò che vuoi,
e non lo invidio: non importa.
Oggi lo vuoi, lo desideri;
domani lo scorderai
per un desiderio nuovo.
No. Ti attendo piú oltre
dei limiti, dei termini.
In ciò che non deve mutare
rimango fermo ad amarti, nel puro
atto del tuo desiderio.
E non desidero piú altro
che vedere te che ami.

di Pedro Salinas (traduzione di Emma Scoles)


giovedì 21 novembre 2019

una tribù di parole mutilate


Tristano e Isotta, Salvador Dalì

Anelli di cenere

(a Cristina Campo)

Sono le mie voci a cantare
perché non cantino loro,
gli imbavagliati grigiamente nell’alba,
quelli vestiti da uccello sconsolato nella pioggia.

C’è, nell’attesa,
un mormorio di lillà che si rompe.
E c’è, quando arriva il giorno,
una divisione del sole in piccoli soli neri.
E quando si fa notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.

             di Alejandra Pizarnik, traduzione di Roberta Buffi


Alejandra Pizarnik 
Alejandra Pizarnik nacque a Buenos Aires nel 1936, in una famiglia di immigrati ebrei di origine russa e slovacca. Nel 1954 si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires ma non terminò i suoi studi. Avida lettrice già in giovanissima età, pubblicò il suo primo libro, intitolato La terra più estranea, nel 1955. A questo seguirono L’ultima innocenza, nel 1956, e Le avventure perdute, nel 1958. Tra il 1960 e il 1964 visse a Parigi, dove collaborò con diverse riviste e quotidiani. A quel periodo risale la sua amicizia con Julio Cortázar, André Pieyre de Mandiargues, Cristina Campo e Octavio Paz, che scrisse il prologo alla sua quarta raccolta di poesie intitolata Albero di Diana (1962). Nel 1964 tornò a Buenos Aires e pubblicò le sue opere più conosciute: I lavori e le notti (1965), Estrazione della pietra della follia (1968) e L’inferno musicale (1971). Nel 1954 Pizarnik iniziò a scrivere un diario che l’accompagnò fino agli ultimi giorni della sua vita (dal sito della casa editrice LietoColle che ha pubblicato la traduzione delle sue poesie).
Nel 1972, all’età di trentasei anni, Alejandra si tolse la vita, nella stessa città in cui era nata.
Poesia completa raccoglie tutte le poesie di Alejandra Pizarnik; il volume è stato curato da Ana Becciu, poetessa e traduttrice letteraria.

 L’epistolario con Cristina Campo, alla quale la poesia Anelli di cenere  è dedicata, si compone  di una trentina di lettere – non ci sono pervenute quelle della Pizarnik – in francese, è stato scoperto, una decina di anni fa, da Stefanie Golisch, autrice di studi su Uwe Johnson e Ingeborg Bachmann, traduttrice verso il tedesco, tra gli altri, di Antonia Pozzi, Charles Wright e delle poesie di Cristina Campo.
In un'intervista che potete leggere per intero qui:  http://www.pangea.news/molti-vivono-al-margine-del-loro-destino-le-lettere-inedite-di-cristina-campo-ad-alejandra-pizarnik/  la Golisch scrive: "quando Cristina e Alejandra si conoscono, si conoscono già. Per quanto apparentemente diverse se non opposte, c’è qualche cosa che le accomuna e cioè l’ossessione del proprio io. Delle sue ferite e delle sue potenzialità. La convinzione che tutta la bellezza della vita si gioca dentro ogni singolo essere umano. Cristina Campo, la raffinata scrittrice e studiosa, molto discreta con la sua vita volutamente appartata, la sua naturale eleganza di altri tempi, che disprezzava i cosiddetti circoli letterari, dicendo di se stessa  di aver scritto poco e di aver voluto scrivere ancora meno e Alejandra Pizarnik, l’eterna ragazza dai tratti geniali, psichicamente labile che si compiaceva nel ruolo di uno sfrenato Rimbaud al femminile e che voleva fare del suo corpo il corpo della poesia. Sostiene George Bataille che quando due persone s’innamorano, sono le loro ferite che s’innamorano. Il compimento dell’amore sarebbe dunque il momento del massimo dolore: quando le due ferite si posano una sopra l’altra. Probabilmente ciò che Alejandra e Cristina avvertono istintivamente una nell’altra è la radicalità con cui la vita si misura in loro secondo i gradi d’intensità. Sotto la soglia della massima intensificazione di ogni attimo, nulla vale. Ciò che conta non sono tanto i mezzi della ricerca – abbandono incondizionato ai piaceri del mondo o elevazione spirituale – quanto il bisogno di bruciare vivi. Cristina Campo sublimerà la sua natura seguendo l’ideale della perfezione – a tutti i livelli –, per Alejandra significa: resistere giorno per giorno nella spietata battaglia tra l’io e il mondo. Perché soltanto a chi non diserta e non si risparmia, a chi si espone coraggiosamente alle sfide mortali che la vita gli lancia, sarà concesso di formulare – per dirlo con un’espressione di Ingeborg Bachmann – wahre Sätze,  frasi vere."


martedì 19 novembre 2019

Un’ombra sul muro





Un’ombra sul muro 
di rami, a mezzodí mossi dall’aria, 
è già abbastanza terra 
e in rapporto all’occhio 
un sufficiente prendere parte 
ai giochi del cielo. 

Quanto pensi ancora d’avanzare? Vieta 
alle nuove impressioni 
d’irrompere dentro di te – 

star coricati, in silenzio, 
in vista dei propri campi, 
entro i confini del feudo, 
e soprattutto sostare 
a lungo presso il papavero 
che non si dimentica 
perché ha retto tutta l’estate – 

dov’è finito ? 

                                 di Gottfried Benn

sabato 16 novembre 2019

Semplicità


Si apre il cancello del giardino
Foto di Grete Stern
con la docilità della pagina
che una frequente devozione interroga 
e all’interno gli sguardi
non devono fissarsi negli oggetti
che già stanno interamente nella memoria.
Conosco le abitudini e le anime
e quel dialetto di allusioni
che ogni gruppo umano va ordendo.
Non ho bisogno di parlare
né di mentire privilegi;
Bene mi conoscono quelli che mi attorniano,
bene sanno le mie ansie e le mie debolezze.
Ciò è raggiungere il più alto,
quello che forse ci darà il Cielo:
non ammirazioni, né vittorie
ma semplicemente essere ammessi
come parte di una realtà innegabile,
come le pietre e gli alberi.

                                 di Jorge Luis Borges


Il cancello di un giardino si apre davanti a noi, allo stesso modo - docilmente - della pagina di un libro al quale torniamo con amore e devozione. Credo che ognuno abbia presente in cuor suo di che pagina si tratti; l'abbiamo sottolineata, annotata o forse vi abbiamo lasciato una data.

All'interno del giardino oggetti consueti su cui lo sguardo non ha bisogno di indugiare, essi sono impressi nella memoria, interamente. Siamo entrati in uno spazio a cui apparteniamo: conosciamo le abitudini e le anime che lo abitano, ne intendiamo il dialetto di allusioni con cui sono solite rivolgersi tra di loro, una lingua in cui la parola non indica ma allude, non denomina ma crea, non enumera ma confonde... Che posto è questo?

Anche il parlare qui è un di più, soprattutto inutile è il mentire privilegi, troppo conoscono quelli che vi abitano debolezze e ansie di chi arriva.

Entrare in questo giardino 

è raggiungere il più alto,
quello che forse ci darà il Cielo

il più alto... ben oltre i palazzi dei principi e le austere aule della scienza, al di là delle sorgenti di fiumi sconosciuti o di cime mai conquistate; non ammirazioni, né vittorie attendono l'ospite, solo essere ammessi come parte di una realtà innegabile. Come acqua che scorre verso valle, come stelle che percorrono strade sempre uguali, come le pietre e gli alberi.

Questo posto è casa, il luogo del ritorno, la freccia che arriva al bersaglio, il porto che attende dopo lungo peregrinare.  Ma che vuol dire essere ammessi ?

Per rispondere a questa domanda mettiamoci di fronte al quadro del Guercino Il ritorno del figliol prodigo, ora esposto nel  Kunsthistorisches Museum di Vienna. 


Il racconto del Vangelo di Luca a cui Giovanni Francesco Barbieri si ispirò per la composizione del quadro è troppo noto perché lo si debba riassumere. Molte sono le interpretazioni che critici ed esegeti hanno dato alla parabola e da ultimo vi si è cimentato anche Massimo Recalcati (il coraggio del figliol prodigo di sfidare il padre). Sebbene la poesia di Borges e il racconto evangelico divergano sotto diversi aspetti, dal quadro di Guercino mi sembrano emergere alcuni punti interessanti. Guercino coglie della storia del figliol prodigo il momento in cui il padre, come nota Recalcati "non punisce il figlio che ritorna, non applica su di lui la Legge, non lo castiga", ma lo accoglie di nuovo in casa, lo ammette - nuovamente - nel posto che è la sua naturale dimora. I modi con cui questo gesto del padre si realizza sono il fulcro del dipinto di Guercino: la mano destra del padre abbraccia la schiena del giovane figlio, con una naturalezza non priva di energia, mentre quella sinistra prende in mano con sollecitudine la veste bianca, destinata a sostituire i cenci con cui si è presentato. 
Questa tensione, questo movimento, efficacemente reso nel quadro, mi sembra in forte sintonia con il raggiungere il più alto che il figlio sperimenta, simboleggiato dalla lucentezza della veste bianca impugnata dal padre: il giovane figlio ribelle, solo ora che ritorna alla casa del padre è davvero capace di comprendere il senso dell'eredità che ha ricevuto. 

Se guardiamo la posizione della testa leggermente reclinata e la posizione delle braccia del giovane che si spoglia, non possiamo non cogliere la naturalezza delle movenze, la confidenza e la semplicità dei gesti. Una semplice armonia lo avvolge, non ha bisogno di parole, di scuse, di vanterie.

Ad ammettere nel più alto, non sarà l'essere stati giusti, né aver superato prove come quelle che Perceval  superò nel "castello meraviglioso" dove è custodito il Graal... semplicemente essere ammessi, come accade ad un figlio che ritrova la strada per casa da cui era partito...

ora è tornato, come parte di una Realtà innegabile.





martedì 12 novembre 2019

Non vi rincresca il nome di fratelli



La gloria di colui che tutto move 
per l’universo penetra, e risplende 
in una parte più e meno altrove.  

E' la terzina con cui comincia la cantica del Paradiso, non una terzina qualunque in effetti, ma quella con cui Dante apre  il racconto dell'ultima e più importante tappa del suo viaggio tra i tre regni. Eppure se consultate i libri di scuola o le spiegazioni più usuali troverete qualcosa di simile a questo:

"La potenza di Dio (colui che muove tutte le cose)
si diffonde in tutto l'Universo, e splende
più in alcune parti e meno in altre"

Il senso sarebbe dunque che l'onnipotenza di Dio raggiunge tutto l'Universo e ogni cosa a lui deve obbedienza. Gloria in questa prospettiva è pertanto sinonimo di dominio. E' una spiegazione tuttavia che non mi convince. 

Il termine gloria infatti, in ebraico kāḇôḏ e nel linguaggio biblico, ha due significati molto diversi se associato a realtà materiali, terrene e laiche o associato a Dio. In quest'ultimo caso “Gloria” indica la sintesi, la somma di tutti gli attributi di Dio, quindi la Sua perfezione, lo splendore e la luminosità che è inseparabilmente collegata con tutte le virtù di Dio e con la sua auto-rivelazione. Dunque gloria è il carattere peculiare di Dio, la bellezza, ciò che è eccellente, straordinario. La gloria di Dio comunica ciò che Dio è. La Sua natura intrinseca e la Sua essenza. 

Se così stanno le cose, la terzina ha un senso molto più profondo e drammatico.

Perché se è vero che non c'è luogo dell'Universo che  non sia abitato da una scintilla di luce, se persino nelle profondità degli abissi di ciò che l'uomo ha potuto compiere vive la Sua bellezza ... tutto cambia.

Ma è davvero così?

Davvero l''impronta dell'essenza di Dio penetra nelle profondità di ogni esperienza dell'umano? Anche nell'acido dove il mafioso ha sciolto un bambino ? Nello sputo rancido del razzista ? Nel letto d'ospedale in cui un bambino malato è stato abbandonato dai genitori? Perché o ciò che Dante ha scritto è vero fino in fondo oppure è solo una bella frase consolatoria e dolciastra, qualcosa di più di un bigliettino in un biscotto della fortuna...

Mi fido di Dante.

Fëdor Dostoevskij
Così come non c'è luogo sulla terra in cui non si nasconda l'impronta della Sua luce non c'è uomo che io non sarei potuto diventare e nel mio sangue c'è lo stesso sangue di tutti gli aguzzini del mondo. Come dice lo starec Zosima, parlando ai suoi confratelli, ne I fratelli Karamazov :

Noi non siamo più santi degli uomini che abitano il mondo solo perché siamo venuti qui e ci siamo chiusi tra queste mura; al contrario, chiunque è venuto qui, fosse solo per questo fatto, ha riconosciuto di essere peggiore di ogni laico, di tutti e di tutto sulla terra… E quanto più un monaco vivrà tra le sue mura, tanto più a fondo dovrà esserne cosciente. Perché se così non fosse, sarebbe venuto qui invano. Quando poi comprenderà di essere non solo peggiore di ogni laico, ma anche colpevole di ogni cosa di fronte a tutti gli uomini, di ogni peccato umano, universale e individuale, solo allora sarà raggiunto il fine di questo nostro ascetismo. Sappiate infatti, miei cari, che noi tutti siamo indubitabilmente colpevoli di ogni cosa su questa terra, non solo a causa della colpa universale che ci accomuna: ciascuno di noi assume su di sé le colpe di tutti gli uomini e di ogni individuo che vive sulla terra. 

Secondo Eraldo Affinati  «Dostoevskij ci fa capire che il caos non è fuori di noi: appare piuttosto celato dentro la personalità di ognuno. Al termine dei suoi romanzi spunta spesso una vocina misteriosa che fa così: stai attento, questo potrebbe capitare anche a te. Nessuno può dire: io non c’entro. Quando un uomo commette un delitto, piccolo o grave, si accende una luce rossa intermittente che non riguarda soltanto lui» (E. Affinati,  Il peso dell’altro ne I fratelli Karamazov).

Oggi tuttavia sempre più fa sentire la sua voce un altro tipo umano, qualcuno lo ha chiamato l'intransigente del bene. E' l''uomo morale, sicuro di trovarsi al di là del confine tra il giusto e l'ingiusto, l'uomo che punta il dito per accusare e addita il male da lontano, con un certo imbarazzo.

Gli integralisti del bene si sarebbero certo tenuti alla larga da tipi come François Villon, che attorno al 1462 scriveva il suo testo più famoso, La ballata degli impiccati, che qui presento nella traduzione di Antonio Garibaldi per i tipi di Einaudi:

Fratelli umani, che ancora vivete,
Non siate duri di cuore con noi!
Se di noi miseri avrete pietà,
Più presto l'avrà Dio anche di voi.
Qui ci vedete in cinque o in sei appesi:
La nostra carne anche troppo nutrita
Da un pezzo è divorata e imputridita,
cenere noi, le ossa, siamo  e polvere.
Del nostro male non rida nessuno,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

 Non vi rincresca il nome di fratelli, 
Che, benché giustiziati, noi vi diamo...
Sapete bene, tuttavia, che a posto
Non hanno tutti gli uomini la testa.
Per noi, che siamo morti, intercedete
Col  figlio della Vergine Maria !
La sua grazia per noi non sia estinta,
E ci salvi dai fulmini infernali.
Noi siamo morti, non ci sbeffeggiate,,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

La pioggia ci ha lavati e ripuliti,
E il sole ci ha seccati ed anneriti;
Gazze e cornacchie ci han cavato gli occhi ,
E strappato la barba e i sopraccigli.
Non stiamo fermi mai, neanche un attimo,
Di qui, di là, il vento appena varia,
Ci fa a suo piacere dondolare,
Resi come ditali dagli uccelli.
Non siate della nostra compagnia,
Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

O Gesù, che su tutti hai signoria,
Salva l'anima nostra dall’Inferno,
Con cui niente vogliamo da spartire.
Qui non c'è niente da scherzare, Umani;

Ma Dio pregate che ci voglia assolvere!

C'è un verso in questa ballata degli impiccati che negli anni mi è continuato a risuonare dentro ed è quando la voce dei condannati dice: non vi rincresca il nome di fratelli. Lo sanno che sono dei tagliagole, dondolano insieme, puttane, truffatori e ladri, per questo dice, non dispiacetevi se vi chiamiamo fratelli. Sì lo sappiamo che non siete come noi, non diamo la colpa a nessuno per i becchi degli uccelli che ci tormentano, per il sole che ci ha seccati, per il vento che di qui e di là ci scuote. Abbiamo avuto quello che ci meritavamo, ma non tutti hanno la testa a posto... Badate bene, non siate della nostra compagnia ...

Io non riderò di voi, non punterò il dito, quel che siete avrei potuto essere io.

homo sum, humani nihil a me alienum puto



venerdì 8 novembre 2019

dietro di me un grumo di speranza.


al primo che salì sopra quel muro,
perché un primo deve pur esserci stato
- quando mica lo sapevi se i Vopos avrebbero sparato
oppure no -
al primo, coraggioso e folle,
al primo ragazzo o alla prima donna.
a loro
che mostrarono a tutti gli altri la via ...


Berlino, anni '70


Sono una tedesca dell’Est; ti vien dietro
come il fumo negli stoppini appena spenti
sono tedesca dell’est, ti cresce
come un fungo tra le dita dei piedi
conto i centesimi del mio marco
il soldato che non ho arruolato
ne mangia sempre la sua percentuale
sono tedesca dell’est e non solo
per la lingua
sono tedesca dell’est finché
i pali non marciscono
finché diffidenze e spie
insaporiscono le salse fatte in casa
me ne sto seduta al lato spoglio del tavolo

sono tedesca dell’est e trascino
dietro di me un grumo di speranza.


      di Helga Maria Novak



Helga M. Novak nel 1971
Helga M. Novak (pseudonimo di Helga Maria Nowak) nacque a Berlino-Köpenick nel 1935 e crebbe a Erkner nei pressi di Berlino in una famiglia adottiva da cui si distaccò appena quindicenne per frequentare un collegio per la formazione di quadri del Partito socialista unitario. La giovane entrò tuttavia assai presto in conflitto con le autorità della DDR: dapprima costretta a interrompere gli studi universitari a Lipsia fu quindi privata della cittadinanza nel 1966 per «sentimenti antisocialisti». 

Nei decenni successivi visse a Francoforte sul Meno e a Berlino Ovest, soggiornando tuttavia a lungo in diversi Paesi, tra cui l’Islanda, la Jugoslavia, la Spagna, il Portogallo della rivoluzione dei garofani, la Polonia di Solidarność, gli Stati Uniti. Nel 1989 si stabilì infine in una località nella brughiera di Tuchel, nella Polonia settentrionale. 
Oltre a dieci raccolte di poesie, insignite di numerosi premi, Helga M. Novak è autrice di radiodrammi, prose, racconti e di romanzi autobiografici che ottennero una vasta eco nella Germania federale dei primi anni Ottanta: Die Eisheiligen e Vogel federlos (Volava un uccello senza piume, Giunti 1990). L’ultimo volume della trilogia autobiografica, intitolato Im Schwanenhals, è uscito nel 2013 ed è incentrato sugli anni universitari, sovrastati dalla onnipresente Stasi, la polizia segreta della DDR. Helga M. Novak è morta a Rüdersdorf, presso Berlino, nel 2013.

Dal sito della casa editrice Effigie Edizioni che ha pubblicato la prima antologia italiana della poetessa berlinese, Finché arrivano lettere d'amore.


martedì 5 novembre 2019

Che lei è stata qui



Claude Monet, Le Bassin aux nymphéas, harmonie verte, Musée d'Orsay



Che il vento d’oriente
aliti nell’aria profumi,
è un segno lontano, un indizio  
che tu sei stata qui.

Che qui lacrime scorrano,
ruscelli che devi attraversare
se in questo prato vuoi entrare,
sono un segno per te, il solo indizio
che sono stato qui.

Bellezza o amore, qui
in strani nascondigli ci si occultano.
Soltanto lacrime e profumi annunciano
che sono stati qui.



di Friedrich Rückert,
                              traduzione di Quirino Principe.


Friedrich Rückert  fu un poeta e un importante orientalista, nacque a Schweinfurt il 16 maggio 1788 e morì  presso Coburgo nel gennaio 1866. A Vienna si dedicò allo studio delle lingue orientali, studio che proseguì poi per tutta la vita. Insegnò letterature orientali prima nell'università di Erlangen (1826-41) e quindi in quella di Berlino (1841-48), pubblicando - oltre alle molte traduzioni dall'arabo, dal persiano e dall'ebraico - una serie di fondamentali lavori critici.

domenica 3 novembre 2019

Naufraghi dei cieli


 Mi dici che a volte la luce della stella si fa troppo tenue. Riesci ancora a vederla, aggiungi ... per quanto ancora ? vuoi forse dirmi. 

Amica carissima, non guardare avanti, ci dice il poeta. E' difficile, lo so bene. Quanto spesso misuriamo il viaggio come se la meta, per quanto lontanissima, fosse davanti a noi. E quanto ci ingarbuglia la vita questo nostro misurare tappe e saggiare le forze, la direzione del vento, la rotta che si perde, le stelle che ora - sì - orientano, ora sono velate...

Abbandonati e galleggia
sopra il mare o sull'erba...



Crepuscolo, Monet, Musée des Beaux-Arts de Nantes


I cieli sono uguali

I cieli sono uguali 
Azzurri, grigi, neri,
si ripetono sopra
l'arancio o la pietra:
guardarli ci avvicina.
Annullano le stelle,
tanto sono lontane
le distanze del mondo.
Se noi vogliamo unirci,
non guardare mai avanti:
tutto pieno di abissi,
di date e di leghe.
Abbandonati e galleggia
sopra il mare o sull'erba,
immobile, il viso al cielo.
Ti sentirai calare
lenta, verso l'alto,
nella vita dell'aria.
E ci incontreremo
oltre le differenze
invincibili, sabbie,
rocce, anni, ormai soli,
nuotatori celesti,
naufraghi dei cieli.


                    di Pedro Salinas

venerdì 1 novembre 2019

Apodytherion


Spogliati. 
Scopri questa secca che chiami pelle.

Naviga. Tra un solco ed uno scoglio
arenati dove l'acqua cede al sale.

Guarda.
Hai prosciugato l'Oceano da cavalcare, l'onda più alta di risacca.

Tocca.  Qui è solo fondo, conchiglie che azzoppano, sabbia e ancore
arrugginite.

Sotto le unghie s'attacca la terra che ricoprì mio padre.


      di Simona Mancini 



La poesia è la parte di noi che non sa stare al mondo. Quella azzoppata alla nascita. Scampata alla rupe. Così Simona Mancini, che si muove nell'universo delle parole come se fosse la sola dimensione possibile dell'esistere, da fuori.


Ho spesso desiderato che lo strano viaggio verso una stella tenue, ad un certo punto, potesse assumere l'aspetto di "un posto pulito, illuminato bene", un posto bello dove rimanere insieme a 
quelli che non riescono ad andare a letto presto, "tutti quelli che hanno bisogno di una luce per la notte" , come nel racconto di Ernest Hemingway.

E' quello il momento in cui qualcuno dei miei compagni di viaggio ci avrebbe fatto dono della sua poesia. Oggi questo desiderio si realizza con la bella poesia di Simona Mancini Apodytherion. Lo spogliatoio, un confine misterioso, una soglia che immette in un'esperienza della vita segnata da 

... conchiglie che azzoppano, sabbia e ancore
arrugginite





mercoledì 30 ottobre 2019

Solo resiste al tempo



Solo resiste al tempo
quel che si fa
col tempo.
E quello che si fa
con l’eternità?
La poesia viene
quando restiamo  
nell’inesauribile
compagnia della solitudine.
Viene come un sùbito
taglio, dove si mischiano
con fredda febbre,
sangue con sangue,
due separati
mondi.


di Hèctor Murena, traduzione di Cristina Campo





Héctor A. Murena  (1923–1975), è stato uno scrittore argentino. Si è cimentato con la saggistica, la poesia e la traduzione, ha avuto un ruolo di fondamentale importanza nella diffusione nella cultura di lingua spagnola di pensatori come  Jürgen Habermas, Theodor Adorno e Walter Benjamin. In Italia la casa editrice Irradiazioni ha pubblicato Il peccato originale dell'America, Homo Atomicus e La metafora e il sacro.

L’itinerario dello scrittore argentino venne a incontrarsi con quello di Elémire Zolla,  nell’esclusivo cenacolo romano che trovò espressione nella rivista “Conoscenza religiosa” per la quale  scrissero intellettuali come  Henry Corbin, Cristina Campo, Quirino Principe, Guido Ceronetti, Pietro Citati, Jorge Luis Borges, Eugenio Montale, Giuseppe Sermonti.  Se in Homo atomicus  lo scrittore argentino è riuscito a fornire nuove prospettive alla critica della civiltà di massa, è nei saggi raccolti in La metafora e il sacro che è possibile individuare la cifra della sua ricerca poetica. A partire da quanto dice Goethe nei versi finali del Faust:

 "Tutto il perituro non è altro che immagine”

e che è un po' la chiave di volta che sorregge l'ispirazione della poesia tradotta con straordinaria sensibilità da Cristina Campo.


domenica 27 ottobre 2019

Non ho bisogno di tempo

Non ho bisogno di tempo
per sapere come sei:
conoscersi è luce improvvisa.
Chi ti potrà conoscere
là dove taci, o nelle
parole con cui tu taci?
Chi ti cerchi nella vita
che stai vivendo, non sa
Pedro Salinas
di te che allusioni,
pretesti in cui ti nascondi.
E seguirti all'indietro
in ciò che hai fatto, prima,
sommare azione a sorriso,
anni a nomi, sarà
come perderti. Io no.
Ti ho conosciuto nella tempesta.
Ti ho conosciuto, improvvisa,
in quello squarcio brutale
di tenebra e luce,
dove si rivela il fondo
che sfugge al giorno e alla notte.
Ti ho visto, mi hai visto, ed ora,
nuda ormai dell'equivoco,
della storia, del passato,
tu, amazzone sulla folgore,
palpitante di recente
ed inatteso arrivo,
sei così anticamente mia,
da tanto tempo ti conosco,
che nel tuo amore chiudo gli occhi,
e procedo senza errare,
alla cieca, senza chiedere nulla
a quella luce lenta e sicura
con cui si riconoscono lettere
e forme e si fanno conti
e si crede di vedere
chi tu sia, o mia invisibile.


Oggi il blog ha sorpassato le cinquemila visualizzazioni, da quando è stato creato. La poesia che ho scelto per questa occasione speciale è di un poeta madrileno che ha posto l'amore al centro della propria ricerca. In Italia Einaudi ha pubblicato una raccolta delle sue poesie, pubblicata nel '33 con il titolo "La voce a te dovuta".
Ringrazio Simona che mi ha parlato di questo poeta, ma in verità voglio soprattutto ringraziare la donna che ha ispirato questa poesia, perché ha dato il volto e la voce a tutte le donne di cui gli uomini hanno potuto dire... di tanto in tanto

Ti ho conosciuto nella tempesta

venerdì 25 ottobre 2019

Il pugnale



Ti amo, mio pugnale d’acciaio intarsiato,
Compagno gelido che abbaglia.
Un georgiano per la vendetta ti forgiò,
Un circasso ti affilò per la battaglia.
Una bianca mano a me ti ha donato
In segno di ricordo nella separazione,
E la prima volta non sangue da te colò,
Ma una tersa lacrima-perla di afflizione.


E fissando i neri occhi su di me,
Ricolmi di segreto dolore,
Come il tuo acciaio sul tremulo fuoco,
Erano a volte buio, a volte splendore.


Datomi per compagno, pegno muto d’amore,
Su di te il viandante può contare:
Come te, come te, amico mio d’acciaio,
La mia anima è salda e non potrà cambiare.

(1838)


 di Michail Jur'evič Lermontov traduzione di Paolo Statuti da:

 https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/04/13/quindici-poesie-di-michail-jurevic-lermontov-1814-1841-tradotte-da-paolo-statuti-con-presentazione-di-antonio-sagredo/


Michail Lermontov attraversò le lettere russe come una meteora. Più giovane di Puškin di quasi una generazione, crebbe in un mondo già lontano dai modelli classici e incapace di confrontarsi con la sua eccezionale opera poetica. Un’opera che, soprattutto nell’ultimo lustro, condurrà Lermontov ai vertici della lirica romantica, non solo russa.
La vita breve, intensa, influenzata dal modello byroniano – che plasmò l’involucro esteriore dell’uomo, fatto di orgoglio luciferino e sprezzante cinismo –, si riflette in componimenti dominati da eroi solitari, da esclusi e proscritti alla costante ricerca di un riscatto. Le loro passioni titaniche vivono sullo sfondo di una natura visionaria che spazia dalle vette innevate e dai fiumi vorticosi del Caucaso alla Spagna di Don Juan o alla Scozia di Ossian, dalla Palestina ardente alla Russia dell’epos popolare, richiamando così le remote contrade care ai romantici inglesi e tedeschi.
Summa degli eroi di Lermontov è il Demone, creatura ribelle e dannata che cerca la salvezza in un amore impossibile. All’eroe di tenebra per eccellenza, e agli altri mondi simbolici e paralleli che gli fanno da cornice in questa antologia – quello del gioco a carte, ovvero l’alea dell’esistenza; quello delle maschere, ovvero il vuoto delle apparenze; quello di un Oriente affocato, ovvero i deserti dell’anima –, Tommaso Landolfi, lui stesso «perenne forestiero» della vita, presta una prodigiosa vena lirica e un dettato di assoluta musicalità .
(dal sito Adelphi  https://www.adelphi.it/libro/9788845920899

La poesia Il Pugnale di Lermontov non può essere apprezzata se non la si colloca nello scenario del Caucaso, dove il poeta russo si trovò più volte a combattere in scontri feroci ... il Caucaso, dove la storia si è divertita a mescolare etnie e popoli, linguaggi e religioni in una manciata di terra il cui paesaggio è altrettanto variegato: dai ghiacciai eterni ad aree semi desertiche, dai pascoli di montagna alla foresta pluviale. 

Circassi, Ceceni, Azeri, Cosacchi, Ebrei della montagna, Ingusci, Georgiani, Osseti ed Armeni. Moschee, cupole ortodosse e sinagoghe, ed ogni valle un'usanza diversa, diversi  costumi, ospitalità sacra e ferocia di briganti, coltelli sguainati ed amori che bruciano, passioni subitanee e vendette eterne. 

Questa terra misteriosa e straordinaria fu raccontata da Erodoto. La attraversò Jan Potocki  lo scrittore polacco che conversava con Marat e De Maistre, un gentiluomo viaggiatore che conosceva l' ebraico, il greco, il latino, l' arabo, e quasi tutte le lingue moderne. un illuminista attratto dalla sapienza occulta della cabala e dei testi ermetici.
Vi giunse anche  Alexandre Dumas fra il giugno 1858 e il marzo 1859 per raccontare una delle tante guerre sante che in quelle terre si sono combattute, aspramente, senza pietà a volte. "Il cimitero degli invasori", in questo modo  Dumas definisce questa terra, che è l'incubo di chiunque voglia tracciare confini o stabilire frontiere, perché le cose degli uomini non stanno dentro a linee tracciate troppo nettamente.

Come il pugnale di questa poesia, forgiato da un Georgiano per la vendetta e affilato da un Circasso per la battaglia, ma anche pegno di amore che stilla terse lacrime dal colore di perla.